Puntate precedenti:
U.S.A. VS CINA – PARTE I – Nel multiverso del confronto tra egemoni (o aspiranti tali)
U.S.A. VS CINA – PARTE II – Situazione Economica
U.S.A. VS CINA – PARTE III – Fase Demografica
Nell’agone egemonico e nelle sue propaggini sin qui analizzate, l’elemento che più probabilmente potrebbe portare ad uno scontro diretto tra Washington e Pechino è senza dubbio l’isola di Taiwan. Indipendente de facto dalla madrepatria dal 1949 – anno della fuga sull’isola dei nazionalisti del Kuomintang di Chiang Kai-shek, a seguito della rovinosa sconfitta contro i comunisti di Mao Zedong nella sanguinosa guerra civile sinica – l’isola, definita da Pechino “ribelle”, è il perno sul quale la contesa tra Cina e Stati Uniti si sostanzia nelle acque dell’Indopacifico.
Di alto valore strategico sia per Pechino che per Washington, Taiwan è l’epicentro della contesa tra i due sfidanti per svariate ragioni, tra cui le principali risultano essere di carattere ideologico, geopolitico ed economico.
Ragioni di carattere ideologico
Il Presidente Xi Jinping nel 2021, durante il XIX congresso del PCC (Partito Comunista Cinese), ha perentoriamente annunciato che l’isola di Taiwan sarebbe dovuta tornare alla madrepatria entro il 2049. Tale data non è stata di certo frutto di una scelta casuale: nel 2049 ricorrerà il centenario dalla nascita della Repubblica Popolare cinese; il “ritorno” di Taiwan servirà al partito per suggellare il completamento dell’unificazione nazionale. Ciò porrà definitivamente termine al secolo delle umiliazioni, nel quale la Cina vide la depredazione delle proprie terre da parte delle potenze coloniali.
Invero, l’amputazione territoriale sofferta dalla Repubblica popolare cinese, con il distacco dell’isola dalla madrepatria nel 1949, è fonte di un ingegnoso artificio propagandistico. In realtà l’isola fu strappata al dragone addirittura nel XIX secolo, quando la Cina era ancora un impero (decadente) ed il comunismo era relegato alla carta stampata, senza che lo stesso avesse ancora trovato applicazione concreta nell’Impero di Mezzo. La Cina perse quell’isola, definita spregiativamente “palla di fango” dallo stesso establishment sinico, a causa della voracità coloniale giapponese. Nel 1895 con il trattato di Shimonoseki, infatti, l’impero nipponico si impose sulla decadente dinastia Qing, ponendo termine alla prima guerra sino-giapponese. Come bottino di guerra il Giappone ottenne, insieme ad altre concessioni territoriali, proprio l’isola di Taiwan. Per Washington invece il mantenimento dello status quo e l’appoggio a Taipei sono funzionali a perpetrare l’immagine degli Stati Uniti come garante degli equilibri nell’Indopacifico verso i propri alleati regionali (e non solo). L’ambiguità strategica portata avanti dalla Casa Bianca dal 1979, per il tramite del Taiwan Relactions Act (nel quale Washington si impegnava a fornire all’isola il necessario per difendersi, senza l’obbligo di intervento militare), è terminata con la presidenza Biden. L’ottuagenario presidente USA, nel summit tenutosi a Tokyo nel maggio 2022, affermava con fermezza che gli Stati Uniti erano pronti ad intervenire militarmente in sostegno di Taiwan in caso di aggressione cinese. Una vera e propria svolta rispetto all’atteggiamento ambiguo tenuto fino a quel momento da Washington.
Ragioni di carattere geopolitico
Facente parte della prima catena di isole di contenimento, Taiwan con la sua posizione strategica ostruisce l’accesso oceanico alla Cina. Il ritorno alla madrepatria significherebbe per Pechino dare profondità al proprio sistema difensivo e al contempo liberare la Cina dall’impedimento ad estendere la propria sfera d’influenza nell’Indopacifico. Le mire egemoniche di Pechino su quel quadrante sono fin troppo chiare: la Linea dei Nove Tratti fagocita, agli occhi di Pechino, il Mar Cinese Meridionale nella completa sfera d’influenza sinica, con buona pace degli altri paesi insulari affacciati su quel tratto oceanico (Taiwan compresa ovviamente). Il possesso di Taiwan è atto imprescindibile per sostanziare le mire espansionistiche di Pechino in mare, creando le precondizioni per trasformare la Repubblica Popolare cinese in una talassocrazia. Lo sforzo cantieristico che Pechino sta portando avanti per creare una marina militare di primissimo ordine è esempio plastico delle reali intenzioni del dragone. Taiwan è la porta per il mare aperto che può proiettare la Cina nell’Indopacifico. Eppure, oggi la riconquista dell’isola manu militari è fuori dalla portata di Pechino e Washington questo lo sa bene.
(Ri)conquistare Taiwan è tutt’altro che impresa alla portata delle forze armate cinesi; l’isola è caratterizzata da un’orografia costiera estremamente avversa. Solo il 10% del litorale di Formosa (nome dato all’isola dai navigatori portoghesi nel XVI secolo) è adatto ad uno sbarco anfibio, l’operazione più complessa in assoluto da un punto di vista militare. Operazione di cui l’EPL (Esercito Popolare di Liberazione) è completamente digiuno d’esperienza. Se poi si considerano l’esiguità delle forze armate anfibie cinesi (circa 40.000 effettivi) e la distanza dalla terra ferma (circa 8 ore di navigazione nei quali il naviglio cinese è alla portata di tiro delle batterie missilistiche e dei caccia taiwanesi) la presa dell’isola è impresa assai ardua. Per Washington vale certamente il contrario di quanto esposto sulla Cina. Mantenere una Taiwan indipendente de facto impedisce a Pechino di estroflettere la propria influenza sull’Indopacifico, il quadrante a più alto valore strategico da oltre dieci anni a questa parte per gli Stati Uniti. Il mantenimento dell’integrità della Prima Catena di Isole blocca le velleità talassocratiche di Pechino, lasciando a Washington il dominio incontrastato dei flutti. Inoltre, difendere Taiwan va oltre il valore strategico dell’isola: l’impegno statunitense nel fornire supporto a Taipei rassicura tutti i partner regionali, dal Giappone all’Australia, che vedono in Washington l’unico vero argine all’espansione sinica nell’Indopacifico e di contraltare l’unico alleato in grado di difenderli in caso di aggressione da parte di Pechino.
Ragioni di carattere economico
La ripresa dell’isola da parte di Pechino consentirebbe a quest’ultima di mettere le mani sul prezioso know-how taiwanese sui semi-conduttori, come già discusso nella seconda parte del nostro speciale. Tuttavia, anche qualora Pechino riuscisse a riconquistare l’isola militarmente, senza distruggere gli impianti della TSMC (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company), cosa tutt’altro che scontata, non otterrebbe comunque (almeno non completamente) quanto desiderato. L’industria dei semiconduttori si fonda sulla transnazionalità: Taiwan non detiene il monopolio della filiera produttiva – ubicata quest’ultima tra Giappone, Stati Uniti e Corea del Sud – pertanto, data l’alta probabilità di un isolamento internazionale sanzionatorio derivante da una presa dell’isola, il valore del bottino si ridurrebbe sensibilmente. Ma Taiwan non è solo semiconduttori: dieci dei quindici principali porti per movimentazione container cinesi sono dislocati lungo la costa dirimpetto a nord di Taiwan. Ciò significa che il naviglio cinese è costretto ad attraversare lo stretto di Taiwan esponendosi ad eventuali blocchi navali da parte dei suoi nemici. Il tutto in un mare dominato dall’egemone statunitense che, per il tramite della propria flotta e di quella dei suoi alleati, può precludere la navigazione alla flotta mercantile cinese, soffocandola in una morsa contenitiva che sarebbe fatale per l’economia sinica.
In ultimo vanno presi in esame i diritti di pesca e delle risorse del sottosuolo nelle acque antistanti l’isola: il ricco settore ittico taiwanese fa gola a Pechino, costretta a sfamare un miliardo e quattrocento milioni di cittadini. La flotta taiwanese di pescherecci d’altura è la seconda al mondo in termini di volumi ed il settore muove circa 3 miliardi di dollari l’anno.
Altrettanto centrale è lo sfruttamento delle risorse site nel sottosuolo marino, con il settore estrattivo degli idrocarburi divenuto prioritario per Pechino, sempre alla ricerca di fonti d’energia per alimentare la sua vorace macchina industriale. Lo US Geological Survey stima che nel Mar Cinese Meridionale siano presenti tra i 5 e i 22 miliardi di barili di petrolio e tra i 2 mila e gli 8 mila miliardi di metri cubi di gas naturale ancora non scoperti. La maggior parte di queste risorse risiederebbero nei fondali della cosiddetta Reed Bank, sita all’estremo nord delle isole Spratly: un’area contesa tra Repubblica Popolare Cinese, Vietnam e Taiwan.
Ciò detto, per Washington mantenere lo status quo su Taiwan ha un altissimo valore economico. Dal sensibile mercato dei semiconduttori, dove gli USA hanno fatto quadrato con i propri (in alcuni casi recalcitranti) alleati, tentando di estromettere Pechino dalla corsa all’accaparramento della tecnologia propedeutica alla fabbricazione di questi componenti, al controllo delle rotte marittime, la sfida con Pechino non ammette errori. Mantenere Taiwan fuori dall’orbita di Pechino, confinando il dragone alle sue acque rivierasche, è Conditio sine qua non per garantire a Washington il primato economico-geopolitico-ideologico in un’area ad altissimo valore strategico.