LA CASA DEL SOCIAL JOURNALISM

U.S.A. VS CINA – PARTE II
Situazione Economica

Carlo Andrea Mercuri

Dopo aver analizzato nel precedente articolo lo status del confronto indiretto tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare sul conflitto in Ucraina, concentriamoci ora sul terreno di scontro economico tra l’aquila e il dragone.

Quando nel dicembre del 2001 la Repubblica Popolare Cinese entrò ufficialmente nella World Trade Organization, complice l’incantamento statunitense per la guerra al terrore di matrice mediorientale, a Pechino fu garantito di sfogare il suo enorme potenziale industriale, senza restrizioni di sorta, nel resto del mondo. Dal 2001 al 2020 il livello dell’export cinese è aumentato dell’870%, proiettando la Cina di diritto come seconda economia globale, nonché facendola assurgere al ruolo di fabbrica del mondo. La crescita economica ha permesso alla dirigenza comunista di Pechino di garantire il patto sociale di stabilità con i propri di cittadini, riassumibile con l’editto benessere in cambio di obbedienza. La redistribuzione della ricchezza all’interno della Cina prevede una circolazione della stessa dalle ricche città costiere verso l’entroterra rurale, potenziale polo rivoluzionario latente nell’impero di Mezzo. Due sono gli strumenti che la Cina intende utilizzare per garantirsi un costante benessere economico funzionale alla pace sociale interna: Made in China 2025 e la Belt And Road Initiative.

Conquistato il ruolo di principale esportatore globale, ora la Cina deve, da una parte, effettuare quel fisiologico salto di qualità nella propria produzione manifatturiera e, dall’altra, deve garantire le rotte commerciali che la legano ai ricchi mercati di sfogo della propria sovrapproduzione industriale.

Attraverso il Made in China 2025 la Repubblica Popolare punta ad abbandonare il ruolo di fabbrica del mondo per diventare un paese esportatore di prodotti ad alta tecnologia. Il piano è imperniato sulla capacità produttiva dei semiconduttori. Già oggi la Cina può vantarsi di aver compiuto enormi passi avanti nel settore, superando in termini di quantità produttiva anche la ribelle Taiwan. Tuttavia, in termini qualitativi il divario rimane sensibile rispetto a quello dei concorrenti asiatici ed europei, vincolando la Cina all’approvvigionamento esterno in un settore divenuto a tutti gli effetti strategico. La centralità dei semiconduttori nella vita civile e militare di un paese e la capacità di approvvigionamento degli stessi è divenuta una conditio sine qua non per ogni potenza che voglia dichiararsi tale. Per superare il gap qualitativo con gli altri paesi produttori, la Cina ha poche alternative: può tentare un improbabile invasione di Taiwan, che le consentirebbe di mettere le mani sulla fabbrica TSMC per colmare il divario di Know-how con i suoi competitors, ma che le restituirebbe il certo effetto collaterale di essere vessata da pesanti sanzioni internazionali, demolendone di fatto la propria capacità esportatrice; in alternativa può tentare un parziale disgelo con gli Stati Uniti e con i suoi alleati, condizione che però  farebbe allontanare inevitabilmente Pechino dal suo partner moscovita e la vincolerebbe a regole restrittive nel consesso internazionale. Quale che sia la rotta che la Cina sceglierà di intraprendere per l’evoluzione della propria industria manifatturiera ad alta tecnologia, essa dovrà assicurarsi le tanto agognate rotte commerciali che le consentono di esportare la propria sovrapproduzione industriale. Il solo mercato interno, per quanto enorme ed in forte crescita, non permette a Pechino di potervi sfogare al suo interno la succitata sovrapproduzione, rendendo l’export verso altri paesi una condizione non negoziabile per il dragone.    

In tale contesto si evidenzia l’importanza fondamentale della Belt and Road Initiative. In particolare, la dimensione marittima assume un ruolo centrale, imponendo alla Repubblica Popolare di risolvere il dilemma di Malacca. L’import-export marittimo cinese, costringe la flotta commerciale del dragone a passare per uno dei choke point più trafficati del globo, lo stretto di Malacca, dove passa circa il 40% del commercio mondiale. Tuttavia, il controllo dello stretto è fuori della portata cinese, che subisce lo strapotere marittimo statunitense, che in caso di necessità può interdire il passaggio al naviglio cinese per il tramite della sua potente marina militare. Pertanto, la Cina sta tentando di aggirare l’ostacolo, finanziando la costruzione di infrastrutture portuali in Pakistan (Gwadar) e in Sri Lanka (Colombo) per ridurre la pressione sullo stretto malese. La BRI rappresenta la tattica cinese volta ad aggirare gli ostacoli per colmare lo svantaggio nei confronti degli Stati Uniti. Tale condizione sfavorevole può essere mitigata anche tramite il tentativo cinese di de-dollarizzazione dell’economia globale. È attraverso il commercio di greggio e gas che la Cina sta tentando di scalzare il dollaro da valuta regina degli scambi internazionali nel settore energetico. In tal senso la guerra in Ucraina ha fornito una sponda importante, poiché una Russia sanzionata e costretta al blocco del sistema Swift si è vista costretta a virare sul sistema cinese CIPS che utilizza lo Yuan per i pagamenti transfrontalieri. Ancora, le migliorate relazioni tra Cina e Arabia Saudita (vedasi mediazione cinese nel tentativo di normalizzazione delle relazioni tra quest’ultima e l’Iran) vedono come benefico effetto collaterale un serio interessamento di Riyad nell’abbandonare il dollaro in favore dello Yuan per le esportazioni di greggio verso l’Impero di Mezzo, complici anche gli ingenti volumi acquistati da Pechino per sopperire alla sua energivora macchina industriale.  Se a ciò si unisce la partecipazione della Cina ai Brics, che oltre al Dragone vede la partecipazione di Russia, India, Sud Africa e Brasile (con la possibile futura aggiunta al gruppo di paesi come Argentina, Iran e Algeria), che, come obiettivo principale hanno la de-dollarizzazione del mercato globale, l’obiettivo finanziario cinese è ben chiaro.       

I tentativi cinesi di de-dollarizzazione, tuttavia, ad oggi non risultano sufficienti a scalfire il primato del biglietto verde negli scambi finanziari globali. Gli Stati Uniti risultano ancora saldamente al comando dell’economia globale anche se il divario con la Cina si sta progressivamente erodendo con un ipotetico sorpasso previsto entro la fine del decennio. Il deficit commerciale degli Stati Uniti, che ad oggi risultano un importatore netto nei confronti dei propri alleati e non solo, è funzionale a mantenere il ruolo centrale del dollaro e dell’economia americana nel contesto globale. L’interdipendenza economica creata dagli Stati Uniti con i propri partners commerciali comporta un sostegno fisiologico alla macchina economica americana da parte dei suddetti. La salute dell’economia statunitense è propedeutica così al benessere dei partner commerciali di Washington. Altrettanto centrale è il primato tecnologico statunitense: la legge varata dal Congresso USA nell’estate del 2022, il Chips and Science Act, prevede un investimento massimo nel settore strategico dei semiconduttori da circa 280 miliardi di dollari. Big Tech come Samsung e TSMC hanno annunciato la costruzione di impianti produttivi dei preziosi componenti direttamente sul suolo statunitense. Proprio la TSMC, nativa di Taiwan, vede la propria sopravvivenza garantita (su carta) dalla protezione che gli Stati Uniti assicurano all’isola ribelle, minacciata dalle ambizioni di riconquista da parte della Repubblica Popolare Cinese.  La sensibilità del tema per gli USA si è palesata nelle restrizioni che questi ultimi hanno imposto sia alle aziende nazionali che a quelle dei propri stati clientes in tema di esportazioni e rapporti con le aziende cinesi in tema semiconduttori.     

Nota dolente è il rallentamento visibile dell’economia a stelle e strisce, con tassi di crescita nel primo trimestre 2023 sotto le attese e una spirale inflazionistica che sembra non rallentare nemmeno sotto gli effetti dell’aumento dei tassi d’interesse imposti dalla FED. Per contro, la fine della politica Zero-Covid in Cina ha rilanciato la sua economia, con una crescita che gli analisti stimano intorno al 5% annuo, ben al di sotto dei valori degli anni Dieci, dove il dragone cresceva a doppie cifre, ma comunque in linea con i livelli pre-pandemici. L’esito della corsa al primato economico mondiale tra Washington e Pechino è in fieri e tutt’altro che scontata.

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Carlo Andrea Mercuri

Carlo Andrea Mercuri

Analista geopolitico, si occupa da anni di questioni internazionali. Autore del libro Verità a Stelle e Strisce (Gruppo Albatros il Filo - 2017), ha collaborato con diverse testate per le sezioni esteri e geopolitica. Appassionato di storia contemporanea americana ed estremorientale.

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