Escluse dall’accesso all’Area Schengen, a causa del veto incrociato di Austria e Paesi Bassi, Bulgaria e Romania vedono precludersi la possibilità di ergersi ad hub portuale e ferroviario per l’import europeo.
Mentre il 1° gennaio 2023 il popolo croato poteva celebrare l’agognato ingresso del paese nello spazio Schengen, Romania e Bulgaria al contrario rimanevano al palo, vedendosi sbarrare le porte all’area di libero scambio a causa del veto incrociato di Austria e Paesi Bassi.
Nonostante il parere favorevole della maggioranza dei membri UE, compreso quello di paesi fondatori del calibro di Francia e Italia, il nulla osta a Sofia e a Bucarest è mancato. Il complesso meccanismo di adesione all’area Schengen – zona di libera circolazione europea istituita tramite l’omonimo Trattato che rimuove i controlli alle frontiere tra Stati membri – prevede di fatto un voto all’unanimità per consentire ai paesi candidati di accedere allo spazio di libero scambio. Sia Bulgaria che Romania, al pari della Croazia, avevano già rispettato l’interezza dei requisiti previsti dal diritto comunitario per accedere allo spazio Schengen; eppure, per volontà politica delle cancellerie austriaca e olandese l’adesione dei due paesi, facenti parte dell’Unione Europea ormai dal 2007, è stata negata. Le rimostranze addotte da Vienna e l’Aia, valevoli al sostanziare la giustezza dei pareri negativi sull’ingresso dei due paesi est europei, erano prettamente di carattere securitario. Invero sia Romania che Bulgaria sono posizionate in un’area molto sensibile, con flussi migratori che solcano la cosiddetta rotta balcanica, sospinti dai porosi confini turchi, che nonostante l’accordo del 2016 concluso tra Ankara e Bruxelles, non riescono a contenere i flussi migratori, per lo più composti da genti dell’Asia Centrale, diretti verso l’Europa Occidentale. La Turchia di Erdogan si avvale dei flussi migratori come leva ricattatoria per estorcere denari alle cancellerie europee, annebbiate dall’erronea convinzione che basti finanziare terze parti per ovviare a una problematica che non potrà che aggravarsi a causa di fattori quali guerre, carestie e cambiamenti climatici. Delle due, la Bulgaria è certamente il paese più intaccato dalle criticità connesse alle crisi migratorie. Gli ingenti investimenti del governo nella costruzione di barriere fisiche ai confini con la Turchia e la costituzione di milizie volontarie di civili che si adoperano per il pattugliamento del confine, sono plastica manifestazione della sensibilità del confine Sud del paese balcanico.
Nel discorso prodromico alla gemmazione della CECA*, dell’allora Ministro degli Esteri transalpino Robert Shuman, il diplomatico francese affermava che:
“L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”
Per Sofia e Bucarest la solidarietà dissertata da uno dei padri fondatori dell’Unione Europa sembra però essere mancata. Se per l’Austria la questione securitaria è stata effettivamente il nodo gordiano politico che ha fatto scattare il veto del paese mitteleuropeo (secondo nell’Unione, in percentuale alla sua popolazione, per richieste di asilo e primo in Europa centro occidentale), per i Paesi Bassi la questione dei flussi migratori potrebbe essere secondaria e pretestuosa rispetto a questioni di carattere meramente economico.
L’invasione russa dell’Ucraina, avvenuta a febbraio 2022, ha scompaginato i piani della Repubblica Popolare Cinese per la mastodontica iniziativa delle Nuove Vie della Seta. Nel progetto originario ordito da Pechino, la Russia fungeva da snodo fondamentale per il traffico terrestre delle merci siniche dirette in Europa. La guerra ha costretto il Dragone a una sensibile rimodulazione del flusso terrestre delle merci in viaggio verso il Vecchio Continente. L’impianto sanzionatorio che ha colpito Mosca (che nei piani originari era il principale beneficiario degli investimenti cinesi con oltre 280 miliardi di dollari), ha richiesto a Pechino la rimodulazione della rotta terrestre della BRI (acronimo di Belt And Road Initiative, italianizzato impropriamente come Nuove vie della Seta). Una variazione del tracciato che potrebbe coinvolgere proprio la Romania: partendo dalla città di Khorgos nello Xinjiang a cavallo tra Cina e Kazakistan, mastodontico hub terrestre costruito nel deserto dal Dragone per sostanziare la rotta terrestre dietro alla BRI, le merci arriverebbero via Mar Caspio a Baku in Azerbaigian. I container potrebbero essere trasferiti poi in Georgia, per raggiungere via nave, infine, la Romania per il tramite dell’importante scalo portuale di Costanza sul Mar Nero.
Il Porto rumeno affacciato nello specchio d’acqua eusino ha beneficiato negli ultimi anni una crescita costante, che dal 2020 al 2022 ha registrato un incremento di oltre il 20% in termini di traffico totale, nonostante le limitazioni al commercio dovute alla crisi pandemica. Complici anche gli ottimi rapporti tra Bucarest e Pechino, cementati fin dall’era Ceaușescu, la ricalibrazione della BRI terrestre potrebbe vedere nella Romania parte della soluzione alla problematica.
Anche la Bulgaria potrebbe fungere da ponte terrestre, primo approdo europeo delle merci cinesi transitanti dalla Turchia via strada ferrata.
Entrambi i paesi sono firmatari del memorandum di intesa con Pechino che consente di partecipare al mastodontico progetto, attraendo i sostanziosi investimenti infrastrutturali.
La Cina ha infatti puntato fortemente sull’area balcanica per il suo progetto infrastrutturale: l’acquisizione del porto ateniese del Pireo, sotto il controllo della compagnia cinese Cosco, e la linea ferroviaria Budapest-Belgrado, nella quale Pechino ha investito quasi due miliardi di euro per l’ammodernamento della tratta, ne sono plastica manifestazione. Il tutto per arrivare al cuore della Mitteleuropa: la Germania. Invero la BRI si sostanzia anche nelle sue rotte marittime, ma il controllo dello Stretto di Malacca e degli altri colli di bottiglia da parte della US Navy, impongono altrettanta importanza alla rotta terrestre. In aggiunta lo spostamento di merci per il tramite di ferrovie riduce della metà le tempistiche di approvvigionamento, rispetto alla controparte marittima e aggira il controllo statunitense sulle tratte.
L’ingresso di Bulgaria e Romania nello spazio Schengen fungerebbe da volano per il potenziamento delle infrastrutture viarie di cui i due paesi necessitano fortemente per risultare appetibili come scali navali e ferroviari. In tale contesto si inseriscono i Paesi Bassi, che per il tramite dell’Europoort, il complesso portuale sito nella città di Rotterdam, vantano il primo scalo marittimo in Europa e il terzo al mondo.
Certo oggi comparare il porto olandese con quello rumeno è operazione ardua, dove il primo gestisce oltre sei volte i volumi del secondo (468 milioni di tonnellate contro i soli 75 del porto eusino), ma gli ingenti investimenti cinesi uniti all’accesso all’area di libero scambio potrebbero quantomeno ridurre le quote di mercato di Rotterdam in favore dei due paesi balcanici per le merci provenienti da Oriente.
In aggiunta, gli sviluppi della guerra in Ucraina, con il diniego all’export del grano ucraino da parte di Mosca, hanno riacceso i riflettori sullo sfruttamento della rotta danubiana. Il fiume, che scorre lungo buona parte dell’Europa centrorientale e ha il proprio Delta in Romania, solo nell’ultimo anno ha visto triplicarsi la capacità di esportazione e movimentazione merci dei suoi porti. Oggi oltre il 30% dell’export di cereali ucraino transita attraverso il Danubio che ha nella Romania il paese con la quota maggiore di tratto fluviale, con oltre 1.000 chilometri di lunghezza attraversanti il territorio rumeno. In tale contesto, un eventuale ingresso della Romania in Schengen non farebbe che aumentare sensibilmente l’importanza del paese come snodo di transito delle merci dirette verso la Mitteleuropa anche per vie fluviali.
Tuttavia, anche qualora la Romania dovesse accedere all’area Schengen, il primato europeo di Rotterdam non sarà intaccato per gli anni a venire, complice anche l’ingente flusso di merci che il porto gestisce provenienti dal versante Atlantico. Invero, la minaccia di erosione di quote di mercato rappresentata dai due balcanici è di per sé motivo sufficiente a giustificare il veto olandese, pragmaticamente più comprensibile rispetto alle accuse di corruzione, gestione dei flussi migratori e altre scusanti politicamente più accettabili da parte dell’opinione pubblica rispetto a ragioni prettamente economicistiche.
* Comunità europea del carbone e dell’acciaio, istituita nel 1951 con lo scopo di mettere in comune le produzione di queste due materie tra i membri firmatari: Germania Ovest, Francia, Italia e Benelux.
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