LA CASA DEL SOCIAL JOURNALISM

U.S.A. VS CINA – PARTE V
Geostrategia

Carlo Andrea Mercuri

Puntate precedenti:

U.S.A. VS CINA – PARTE I – Nel multiverso del confronto tra egemoni (o aspiranti tali)

U.S.A. VS CINA – PARTE II – Situazione Economica

U.S.A. VS CINA – PARTE III – Fase Demografica

U.S.A. VS CINA – PARTE IV – Competizione per Taiwan

Dei cinque elementi presi in considerazione nel nostro speciale, il terreno geostrategico è forse quello dove si acuisce di più la disparità tra i due contendenti. Una Repubblica Popolare Cinese, incastonata geograficamente in un quadrante che la vede contrapposta a vari Stati ad essa ostili o ambiguamente alleati (vedasi l’amicizia senza limiti con la Russia, che dall’Operazione Militare Speciale di Mosca di limiti ne ha mostrati invece molti  e l’inaffidabilità della Corea del Nord, che con i suoi vezzi missilistici infiamma ulteriormente un’area già ribollente), si vede costretta ad estroflettersi verso il Pacifico per garantirsi quell’afflato imperiale a cui tanto anela. Eppure, le acque del Mar cinese – Meridionale e Orientale – prima e quelle del Pacifico poi, nascondono una serie di insidie per Pechino, studiate ad arte dal rivale americano per contenere le velleità talassocratiche del dragone.

              
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti, in funzione dapprima antisovietica e poi anche anticinese, hanno cementato una serie di alleanze militari con i paesi dell’Estremo Oriente e del Sud-Est asiatico, andando a creare un cordone di sicurezza volto a limitare l’azione oceanica cinese. Oggi la Repubblica Popolare Cinese è intrappolata in una doppia catena contenitiva – I e II catena di isole – composta dai suoi principali oppositori regionali, di cui fanno parte il Giappone, le Filippine, l’Australia, l’Indonesia, e Taiwan, solo per citarne alcuni, fino all’egemone dei mari, gli Stati Uniti. In tale scenario risulta pertanto vitale per la Cina la (ri)conquista di Taiwan, tappo strategico americano che limita l’azione navale cinese. L’isola ribelle, staccatasi dalla madrepatria da oltre settanta anni, che non ha intenzione alcuna di unificarsi alla Cina continentale spontaneamente per evidenti ragioni economiche e sociali, è il grimaldello che Washington usa per scardinare la tattica cinese di estroflessione marittima, contenendo la Cina all’interno delle sue acque territoriali. Se la possibilità di una guerra con gli Stati Uniti ad oggi non è certezza, quello che è cristallino è che se di guerra si tratterà, la stessa sarà combattuta per mare. Ed è proprio in mare che gli Stati Uniti vedono oggi garantita una netta superiorità militare.

Distanti migliaia di miglia nautiche dall’Estremo Oriente, protetti dalla profondità strategica garantita dal Pacifico, gli Stati Uniti hanno investito ingenti somme di denari pubblici per rafforzare quella che ad oggi è la marina militare più potente di sempre. Composta da undici carrier strike group, la US Navy gode di un vantaggio netto sulla controparte cinese. Nonostante la Cina negli ultimi anni abbia ridotto il divario quantitativo di naviglio, superando finanche in numeri assoluti la flotta americana, a livello qualitativo la competizione rimane impari. Analizzando gli asset navali più rilevanti tatticamente per le due nazioni –  le portaerei – salta all’occhio una differenza fondamentale: tralasciando le numeriche (qui il conto è impietoso, con la Cina che può schierare al momento solo due gruppi portaerei contro gli undici a stelle e strisce), due sono i fattori che differenziano i pesi specifici delle rispettive marine militari: la propulsione e la capacità di imbarcare mezzi aerei. Sono questi i due terreni dove le differenze si acuiscono maggiormente.           


In riferimento alla propulsione, mentre la US Navy, per tutte le sue super-portaerei, ha adottato una propulsione nucleare, la marina cinese ha ripiegato su portaerei con motorizzazioni convenzionali.    
Anche la nuovissima portaerei del dragone, la Fujian – Type 003, prossima all’entrata in servizio, non fa eccezione in tal senso.  
Si ravvisa infatti in questo macro-dettaglio la diversa concezione che i due paesi hanno della propria capacità di estroflettere il proprio potenziale navale. La propulsione nucleare garantisce un’operatività
estesa in mare rendendo la nave capace di proiettarsi rapidamente in qualsiasi quadrante fosse richiesto (la propulsione nucleare consente alla portaerei di mantenere alte velocità per tutto il tempo necessario a raggiungere l’ipotetico teatro di conflitto); la propulsione convenzionale al contrario, scelta dai cinesi, sembra voler denunciare da parte di Pechino una autolimitazione dell’azione della propria marina al Pacifico interno – senza rifornimento di carburante le portaerei cinesi hanno un’autonomia di circa 4000 miglia nautiche, non sufficienti a raggiungere nemmeno le Hawaii – inoltre i motori convenzionali garantiscono velocità di crociera più basse rispetto alla controparte nucleare.     

      
Questa differenza sostanziale denuncia le diverse ambizioni dei due pesi massimi.  Da una parte vi è la super potenza talassocratica, pronta a dislocare il proprio potenziale areo-navale rapidamente in tutto il globo, dall’altro un competitor che per ora vede come teatro operativo di diretta competenza solo il Mar Cinese e (auspicabilmente) il Pacifico. Per quanto concerne le capacità di trasporto dei mezzi aerei per il tramite delle proprie portaerei, la differenza tra l’aquila e il dragone è altrettanto sensibile. Le portaerei USA garantiscono una capacità di imbarco di circa ottanta velivoli in media per nave, tra i quali si possono annoverare caccia di V generazione come l’F-35 Lightning II, con capacità stealth. Le controparti cinesi attualmente in servizio non superano le quarantacinque unità imbarcate per portaerei.

La nuovissima Fujian potrà trasportare fino a sessanta velivoli tra aerei ad ala fissa e rotante, rimanendo comunque distante dalle capacità di dislocazione massima delle controparti statunitensi. La differenza di capacità imbarcata potrebbe essere sopperita dalla Cina con l’ausilio della sua aviazione convenzionale: postulando che il teatro di scontro plausibile tra Washington e Pechino sarà l’Indopacifico, la Cina ribilancerebbe le forze in campo per il tramite dell’aviazione militare. Ciò invero però sottolinea ulteriormente l’impostazione prettamente rivierasca e difensiva della strategia militare cinese, incapace di proiettare potenza oltre le sue acque costiere. L’impostazione della prossima portaerei cinese, la Type-004, dovrebbe ovviare a queste limitazioni, in quanto la stessa sarà munita – almeno su carta – di una propulsione nucleare e di una capacità di imbarco aereo intorno alle ottanta unità, arrivando a colmare quel gap qualitativo con la US Navy, ferma restando la sproporzione di naviglio in termini di numeriche aeronavali.     


Infine, l’esperienza maturata in svariati contesti bellici e il vantaggio tecnologico, garantiscono a Washington un primato ad oggi incolmabile, che costringe la Cina a impostare la propria tattica sulla difensiva, convogliando gli sforzi nello sviluppo sistemi missilistici antinave, funzionali al contrasto di un eventuale dilagamento americano in acque limitrofe alla costa cinese. La Marina cinese oggi, nonostante gli steroidei numeri, viene ancora definita in maniera denigratoria una Brown-water Navy, ossia una marina in grado di compiere azioni sul litorale piuttosto che in mare aperto. Il fregio di Blue-Water Navy per ora rimane sfuggente e ad uso esclusivo della Marina militare degli Stati Uniti.

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Carlo Andrea Mercuri

Carlo Andrea Mercuri

Analista geopolitico, si occupa da anni di questioni internazionali. Autore del libro Verità a Stelle e Strisce (Gruppo Albatros il Filo - 2017), ha collaborato con diverse testate per le sezioni esteri e geopolitica. Appassionato di storia contemporanea americana ed estremorientale.

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