Un cookie per la vita (digitale)

Da Redazione

Una delle insidie più subdole dell’era digitale è costituita dalla pervasività dei sistemi di controllo delle persone, una architettura demoniaca fatta di informazioni e metadati elaborati e utilizzati per tracciare, predire e orientare le nostre scelte in ogni ambito della nostra vita. Su questo tema torneremo spesso e in modo più approfondito, viste le implicazioni che ne derivano sotto vari profili.

In queste brevi righe, invece, vogliamo accennare alla questione della privacy, un diritto tanto riconosciuto e normato quanto costantemente violato, spesso con arroganti artifici, come ci ricorda l’avvocato Tiziana Fragomeni nella sua lepida “ballata della privacy” pubblicata nella sezione Social Journalism.

Durante la quotidiana navigazione sul web ci imbattiamo inevitabilmente nei famigerati “cookie”. Nomen omen verrebbe da dire, considerato che nella lingua inglese il termine significa “biscotto”. E infatti sono proprio biscottini quelli che ogni giorno introitiamo nella pancia dei nostri devices (computer, tablet, telefoni) senza conoscerne neppure gli ingredienti.

Secondo una recente indagine della Cisco, riportata sul sito del Garante per la protezione dei dati personali, il 79% degli utenti non ha alcuna consapevolezza circa i trattamenti delle proprie informazioni personali. Ma il dato più sconcertante che emerge dal report è che il 50% di costoro imputa tale circostanza al fatto di essere “sotto ricatto”, cioè di essere costretti a cedere i propri dati personali per poter utilizzare un servizio.

Una vera e propria trappola impossibile da evitare, nonostante gli interventi normativi da parte dei vari organismi europei di protezione dei dati. Alcuni cookie come quelli tecnici, infatti, sono necessari perché consentono al sito di funzionare correttamente. Altre tipologie, dai nomi inquietanti come gli analitici, di profilazione e di terze parti, servono ad aziende commerciali (ma anche ad agenzie di varia natura) di sapere tutto di noi: le nostre propensioni di acquisto, gli orientamenti politici e perfino i nostri dati biometrici.

In teoria saremmo obbligati a prestare il consenso solo ai primi, ma rifiutare i secondi è una autentica impresa, anche a causa della macchinosità delle procedure. Così accade che per leggere una notizia oppure per acquistare un prodotto accettiamo qualunque “informativa”, dando il via alla giostra di mail e telefonate indesiderate.

A proposito di queste ultime, in Italia il Garante della privacy ha introdotto nel luglio scorso il Registro pubblico delle opposizioni (RPO) allo scopo di eliminare il marketing selvaggio. Risultato? Nessuno. Chi non sperimenta all’ora di pranzo una telefonata di operatori con accento maltese o con le note di Beethoven? Alla fine il registro è finito sotto la lente di ingrandimento dello stesso Garante, dell’Antitrust e della Procura di Roma a seguito delle denunce presentate dalle associazioni dei consumatori.

Insomma, una supercazzola. E il proclamato the right to be let alone (ovvero il diritto a essere lasciati soli) di Warren e Brandies, i due avvocati americani che per primi definirono il diritto alla privacy in un celebre saggio, va a farsi benedire.

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