Gioco di ombre tra i Caraibi e il Mar Cinese. Se Washington si avvale di Taiwan come testa di ponte per apporre pressione su Pechino, spiandola e contenendola a livello marittimo, a Pechino avranno pensato di poter fare lo stesso, o almeno provarci.
L’8 giugno scorso il Wall Street Journal riportava la notizia di un accordo tra l’Havana e Pechino per la costruzione di una base SiGint (Signals Intelligence) in terra cubana. La notizia, non smentita, ma ridimensionata dal Coordinatore per le Comunicazioni Strategiche del Consiglio di Sicurezza Nazionale, l’ex Ammiraglio John Kirby, che ha bollato la stessa come non accurata, porrebbe comunque seri grattacapi alla Casa Bianca e al Pentagono, rievocando spettri del recente passato bipolare. L’isola caraibica di Cuba, distante solo novanta miglia nautiche da Key West (Florida), rivendicò già un posto d’onore negli incubi degli americani (e non solo) nel 1962, con l’omonima Crisi dei Missili. In quei giorni di fortissima tensione si consumò l’aspro confronto tra Kennedy e Krusciov, fomentato dall’istallazione di rampe di lancio per missili balistici nucleari a Cuba. Gli Stati Uniti, per la prima volta da quando gli inglesi bruciarono la Casa Bianca nel 1812 nel corso delle guerre anglo-americane, affrontavano la peggiore minaccia alla loro integrità territoriale: un nemico alle porte di casa capace di colpirli dritti al cuore. Lo stato di tensione che generò quella crisi portò i due contendenti sull’orlo dello scontro totale, sventato poi da un accordo in extremis che sancì pubblicamente lo smantellamento dei missili a Cuba da parte dei sovietici in cambio della garanzia sulla non invasione dell’isola da parte di Washington.
Quella che venne riportata dai media come una vittoria del blocco occidentale in realtà fu un accordo “alla pari”: Krusciov, in cambio del ritiro dei vettori da Cuba, ottenne lo smantellamento dei missili Jupiter schierati tra Turchia, Italia e Regno Unito puntati contro Mosca.
La mossa cinese di installare una stazione di spionaggio in quel di Cuba, per quanto meno carica di tensione rispetto a quella effettuata dai sovietici negli anni Sessanta, andrebbe a (ri)sobillare gli istinti statunitensi di protettorato delle Americhe, considerate il “cortile di casa” di Washington almeno dal 1823, anno dell’enunciazione della Dottrina Monroe. Tale dottrina, esposta dall’omonimo presidente, faceva delle Americhe una questione prettamente interna a Washington, ammonendo le potenze coloniali dell’epoca di astenersi da qualsiasi ingerenza sulle questioni continentali. Nonostante siano passati quasi duecento anni dal discorso tenuto dal Presidente James Monroe al Congresso circa il destino delle Americhe, gli Stati Uniti nel corso del tempo hanno rimarcato a più riprese la sempiterna validità di questa dottrina. Innumerevoli sono stati infatti gli interventi diretti o indiretti di Washington sul continente per garantire la “pacificazione” dello stesso, dalla destituzione di Allende in Cile ad opera di un Pinochet supportato dalla CIA, all’invasione della piccola isola di Grenada (Operazione Urgent Fury), fino alla detronizzazione di Noriega a Panama, solo per citarne alcuni. Lo scopo è sempre stato quello di evitare che forze invise agli Stati Uniti potessero germogliare nel cortile di casa di Washington, minandone la profondità strategica.
La posizione di cui godono gli Stati Uniti a livello geografico è uno dei fattori che ne garantiscono la preminenza in campo internazionale. Protetti da due oceani e senza reali minacce proiettabili dai suoi placidi vicini, gli USA hanno goduto di un contesto di pace e prosperità continentale da oltre un secolo e mezzo; elementi che hanno senza dubbio contribuito sensibilmente a decretarne lo status egemonico mondiale.
L’accordo cinese con Cuba va letto pertanto oltre la portata della sua importanza di facciata. La costruzione di un centro di intelligence nel mar dei Caraibi è foriera di psicosi da accerchiamento, proprio dove gli Stati Uniti si sentono intoccabili. La mossa sinica a Cuba è solo l’ultima di una serie di manovre del dragone volte a spiare gli Stati Uniti: dalle stazioni di polizia cinesi clandestine a New York fino al Baloon gate, senza dimenticare il social dual-use Tiktok. Tramite l’applicazione creata in Cina, Pechino insidia il primato statunitense. Rivolto soprattutto ai giovani, TikTok ne raccoglie i dati, sponsorizzando contenuti che enfatizzano uno stile di vita consumistico e individualista, minando le basi della coesione sociale e del senso imperiale americano, sospingendo la società statunitense a gonfie vele dal social cinese verso l’economicismo post-storico.
Certamente, né un social network né una base di intelligence posta a Cuba da sole basteranno a compensare il divario che ancora oggi affresca le posizioni dei due sfidanti. Tuttavia, gli Stati Uniti tentano di non drammatizzare sulla notizia, stemperando possibili escalation, ricercando anzi timidi tentativi di disgelo con Pechino. Biden al G7 di Hiroshima ha abbozzato a una riapertura del dialogo con Pechino, ma Cuba rimane il pugnale geografico che minaccia il ventre degli Stati Uniti. Se Pechino tenterà concretamente di installarsi a Cuba a tempo indefinito, non limitandosi magari alla sola intelligence ma installando veri e propri sistemi d’arma, ogni tentativo di disgelo tra Stati Uniti e Repubblica Popolare verrebbe probabilmente vanificato, inasprendo altresì lo scontro tra le due potenze verso nuovi livelli, con un richiamo obbligato a quei cupi giorni di sessant’anni fa.