“Le canzoni servono a formare una coscienza. Sono una piccola goccia dove servirebbero secchi d’acqua. Cantare, credo sia un ultimo grido di libertà. Forse il più serio“. Riesce sempre difficile collegare le parole di Fabrizio de André alle canzoni del mainstream musicale e ancora più difficile accostarle a rassegne nazional-popolari come il Festival di Sanremo. Tuttavia c’è da ricordare che, anche quando quelle parole venivano pronunciate, i cantautori italiani (per intenderci, i due Bennato, De Gregori, de André, Fossati, Guccini, Paolo Conte ecc.) non trovavano degni spazi nell’etere governato dalle tv commerciali e dalle radio “ex-libere”, poi regolamentate rigidamente tramite restrizioni normative e pesanti tassazioni.
In genere i grandi marchi musicali, quando colgono un movimento socio-culturale in atto, tendono ad incanalarlo nei propri standard, allo scopo di controllarne la portata e di fare cassa attraverso prodotti che mettono sullo stesso piano: la fruizione della musica, i gadget collegati al singolo artista, le concessioni per lo sfruttamento dell’immagine e infine la musica effettivamente creata.
“L’industria culturale è preordinata integrazione, dall’alto, dei suoi consumatori” scriveva il sociologo Theodor W. Adorno già nel 1947. Il Festival di Sanremo, con il suo immancabile battage pubblicitario, può essere riconducibile a questa strategia e troverebbe giudizi più indulgenti se lo si considerasse per quello che è: un lungo spettacolo televisivo che, a volte, passa della buona musica e qualche novità di cui molto raramente le “giurie popolari” e i giudici designati si accorgono.
Rassegne musicali come Sanremo vanno colte nella loro effettiva dimensione: ottimi spettacoli televisivi che ospitano grandi professionisti del mercato musicale e non, gestiti e controllati sotto ogni aspetto dai network mediatici e dalle grandi case di produzione commerciale e musicale.
Il passato ha insegnato che spesso la “musica bella” (quella che resta nei decenni come emozione legata alle note suonate e cantate, non solo come bel ricordo personale) occorre andarsela a cercare nei meandri del web, in qualche spettacolo lontano dai riflettori dei grandi palchi, ascoltando prima di tutto se stessi, senza pregiudizi e barriere mentali.
“La bellezza annulla il tempo”: la ricerca del prodotto alla moda, compresa la moda considerata rivoluzionaria per i tempi, serve a soddisfare un bisogno di “appartenenza” ma non il piacere psico-fisico e duraturo che sa dare la musica. Il mestiere del musicista, come ogni altro mestiere, non è fatto di scorciatoie ma di applicazione, studio e impegno ben indirizzati. Basta guardare le biografie dei grandi di ogni epoca (soprattutto quelli che non sono stati stritolati dalla fama o dai loro produttori) per rendersene conto.
Tempo fa Nanni Moretti, in un’intervista alla radio nazionale, disse che suo figlio faceva il pittore a Londra, dove tra l’altro la gente capiva che stava parlando del proprio mestiere, non di un hobby da sfaccendato benestante. Allo stesso modo, in Italia è difficile dire “faccio il musicista di mestiere”, anche perché il sistema non lo consente se non in sporadici casi e quasi mai in forma totalmente autonoma.
Anche per questo, il pubblico della popular music – praticamente tutti noi – viene accusato dai musicologi di “accontentarsi” e di dimenticare che, come diceva Duke Ellington, “ci sono solo due generi musicali: la musica buona e l’altra musica”. Solo che per distinguerli dovremmo educarci alla bellezza per riconoscerla al di là delle apparenze, sia nell’arte che nella vita.