La tristezza e la malinconia sono sentimenti che generalmente tutti vorremmo evitare, se solo fosse possibile. In realtà, la gioia e la tristezza si intrecciano per comporre la sostanza stessa della nostra vita.
Il poeta romano Ovidio era consapevole di questa realtà poiché scrisse: “Nessun piacere è incontaminato: qualche preoccupazione, qualche pena si intrufolano sempre nella nostra felicità.”
La moderna psicologia sembra confermare questo punto di vista. Il dott. Norman Bradburn scrisse: “La felicità è la risultante delle opposte forze di sentimenti positivi e negativi, piuttosto che una quantità assoluta degli uni o degli altri.”
La felicità è comunemente accettata come l’unica condizione desiderabile della nostra vita. In quest’ottica, sembra che la tristezza non trovi un suo scopo. L’apparente pessimista predicatore dell’Ecclesiaste esprime un’alta considerazione della tristezza quando scrive: “La tristezza val meglio del riso; poiché quando il viso è mesto, il cuore diventa migliore” (Ecclesiaste 7:3)
Si potrebbe discutere a lungo se la tristezza vale meglio del riso, ma certamente essa ha spesso, nelle nostre vite, un valore che non sappiamo apprezzare. Possiamo imparare importanti lezioni nei momenti di malinconia, che ci sfuggirebbero se tutti i nostri giorni fossero riempiti solo di sole e di sorrisi – lezioni di pazienza, perseveranza, longanimità e coraggio di fronte alle avversità. E dovremmo ben riflettere su queste lezioni in questo nostro mondo basato sulla ricerca del piacere.
Siamo continuamente spinti a credere che la tristezza sia una cosa innaturale, che la vita dovrebbe essere un flusso costante di gioia e risate, e che, se non siamo felici, c’è qualcosa di sbagliato in noi. Questo modo superficiale di vedere la vita ci può portare a conclusioni disastrose.
Giovani coniugi possono chiedere il divorzio ai primi segni di difficoltà, non comprendendo che ogni matrimonio ha i suoi problemi. Altri possono finire con l’indebitarsi pesantemente nel tentativo di acquistare mezzi per fuggire dalla depressione (vacanze, cure estetiche, l’ultimo modello di cellulare o di computer e così via). Le nuove generazioni sono state cresciute così intente a vivere libere da ogni tipo di dolore che ora cercano stimolanti e tranquillanti, droga e panacee al minimo segno di tristezza.
A rafforzare la naturale tendenza umana a rifuggire la tristezza, ahimè, si aggiungono anche i cosiddetti esperti. Un esempio tra i tanti: la perdita di una persona cara certamente è causa di tristezza, almeno per ogni persona normale. Ed è una situazione alla quale nessuno sfugge. Non solo, la dobbiamo anche affrontare più di una volta nella vita. Ebbene, secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, nella sua edizione del 1980, la depressione da lutto era considerata un disturbo mentale se durava più di un anno. Nella successiva edizione del 1994 il periodo era stato ridotto a due mesi. Nell’edizione del 2013 si viene dichiarati clinicamente depressi (e quindi bisognosi di una terapia farmacologica antipsicotica) “se si è ancora tristi dopo due settimane dalla morte di una persona cara”! A parte essere questa l’ennesima prova di come l’industria farmacologica allarghi sempre più le sue maglie per convincere i sani che sono malati, è anche l’evidenza di un’intenzione di volerci far credere che possiamo vivere su questa terra sempre felici e contenti e che la tristezza è segno di una nostra anomalia che va curata pagando psichiatri, psicologi e acquistando farmaci che danno dipendenza.
Mentre talvolta un farmaco può essere necessario per superare una profonda crisi, non dovremmo permettere di essere derubati della guarigione e della forza che possiamo ottenere affrontando le afflizioni e lavorando sui problemi. Un po’ di malinconica contemplazione può essere, per un cuore ed una mente feriti, ciò che il riposo e la guarigione sono per il corpo. Possono essere un’opportunità di lasciar agire i poteri interiori della vita, capaci di riparare e guarire le ferite e superare i traumi dell’anima che ci hanno portato quel dolore.
Sì, la tristezza è una parte della vita, e mentre non cerchiamo il dolore, neppure dovremmo fuggirlo.