I sociologi chiamano il nostro mondo moderno “la società dell’Io”, società nella quale tutti cercano accanitamente di compiacere sé stessi. Ci viene insegnato a vedere le persone solo in termini di “scambio”. La questione sottintesa che si cela dietro ogni attività in questo tipo di società è «Che vantaggio mi porta?». E la presenza degli altri è tollerata solo nella misura e per il tempo strettamente necessario a ricavare dalla relazione un vantaggio.
La lingua italiana ha almeno cinque modi per indicare il comportamento di coloro che non pensano certamente agli altri, anche se noi ne utilizziamo uno soltanto (ah, maledetta scuola, che non hai mai imparato a insegnare…).
L’egoismo, ovvero la tendenza a seguire esclusivamente i propri interessi e desideri, senza considerare quelli altrui. L’egotismo, che è la stima eccessiva di sé che induce ad attribuire valore solo alle proprie esperienze. L’egolatria, ossia l’adorazione, il culto di sé stessi. L’egolalia, cioè la tendenza a parlare continuamente di sé. Infine, l’egocentrismo, che è la tendenza a porre sé stessi al centro di ogni situazione.
Di questi cinque comportamenti, i più diffusi sono il primo e l’ultimo. Gli effetti dell’egoismo li abbiamo visti ampiamente testimoniati durante la pseudo pandemia. Invece di unirsi, come cittadini e persone libere, in difesa dei comuni diritti contro un sistema che voleva (e vuole) distruggere la nostra economia e la nostra libertà, la preoccupazione di ognuno è stata semplicemente quella di trovarsi, in qualche forma, tra i “privilegiati”. Perché dovrei preoccuparmi del fatto che bar e negozi vengono chiusi, quando io lavoro in aziende che possono continuare l’attività? Perché dovrei preoccuparmi di quegli operai e impiegati della piccola e media impresa che stanno perdendo il lavoro quando io lavoro per una grande società, o per una banca o per la PA? Perché dovrei preoccuparmi di quei negozi che devono restare chiusi quando il mio negozio può restare aperto? Il risultato di questo egoismo è la grave crisi economica e sociale che stiamo vivendo.
Anche gli effetti dell’egocentrismo sono evidenti tutti i giorni. Per tutti, basti osservare quanto siano pochi gli automobilisti o i camionisti che fanno uso delle frecce di direzione. Quasi tutti, ormai, si immettono da fermi sulla corsia di marcia; effettuano sorpassi; si infilano tra un’autovettura e l’altra; svoltano a destra o a sinistra, senza minimamente pensare di indicare la loro intenzione attivando la freccia. Se pensiamo poi che questa azione, da una parte, richiede un tempo e una fatica infinitesimali, mentre, dall’altra, può causare incidenti con gravi danni ai veicoli e alle persone, possiamo renderci conto della gravità di tale minima mancanza. Ma perché le persone non fanno nemmeno questo piccolissimo sforzo? Perché pensano di essere loro al centro dell’universo e che tutti gli altri debbano ruotare intorno a loro. E se fanno così quando a loro è richiesto uno sforzo minimo in confronto a un rischio potenzialmente grave anche per loro stessi, possiamo immaginare in quante altre situazioni la massa agisca con la stessa stoltezza. Il risultato di questo egocentrismo è, in grande misura, responsabile dei 177.000 incidenti stradali che ogni anno infestano l’Italia, con 251.200 feriti e 3.400 morti.
E poi tutti dicono di essere alla ricerca della felicità. Ma la felicità non è certo un risultato che possiamo ottenere compiacendo e pensando solo a noi stessi. Allora di che cosa è il frutto? Il poeta e drammaturgo inglese Robert Browning una volta disse: «Oh, facci felici e ci renderai buoni”. Questo forse potrebbe idealmente risultare vero, anche se personalmente ho dei forti dubbi. Piuttosto, tendo a credere che sia molto più vero il suo contrario. «Oh, facci buoni e ci renderai felici». Un altro scrittore, lo statunitense Horace Mann, fece questa osservazione: “Invano parlano di felicità coloro che mai sottomisero un impulso all’obbedienza a un principio. Colui che mai ha sacrificato un bene presente per un maggiore bene futuro, o un bene personale a uno generale, può parlare di felicità solo come il cieco può parlare dei colori».
Dobbiamo comprendere che sarà sempre un non senso cercare di trovare la felicità nell’egocentrismo, anziché nella padronanza di sé; nell’ammirare coloro che si fanno servire, invece di coloro che servono; nello stimare coloro che fanno i furbi, invece di coloro che sono saggi.
Quando cerchiamo la felicità altrove, nel saziare i nostri sensi o nell’eccitazione di un momento, siamo come bambini in un parco divertimenti attratti dalle luci brillanti e dalla sgargiante promessa di una temporanea, ma falsa felicità. Il problema con “la società dell’Io” e il perseguimento del piacere è semplicemente che non funziona.