LA CASA DEL SOCIAL JOURNALISM

La fine della Françafrique

Il colpo di stato nigerino del 26 luglio scorso assesta un colpo potenzialmente mortale alle ambizioni neocoloniali di Parigi in Africa.

Il Sahel ribolle, non solo climaticamente. Negli ultimi tre anni nell’area saheliana si sono susseguiti ben sei colpi di stato nei paesi che facevano un tempo parte dell’AOF (acronimo di Africa Occidentale Francese, costrutto geopolitico coloniale creato per soddisfare le ambizioni imperialiste di Parigi).

A latere delle singole ragioni endogene, un filo rosso accomuna i recenti tumulti anti-status quo che si sono susseguiti in questo pezzo d’Africa: l’aperta ostilità nei confronti della Francia e del suo neocolonialismo infuso di paternalismo.

Le immagini che si sono susseguite hanno visto folle di manifestanti rabbiosi dare fuoco al tricolore transalpino per le strade di Ouagadougou, Bamako e in ultimo a Niamey, finanche assediando le ambasciate transalpine. Sintomi di un’insofferenza covata in anni di dominazione prima coloniale e poi economico-geopolitica da parte dell’Eliseo.

Prurito fastidioso che, nel pluriennale disinteresse della comunità internazionale, è sfogato in una virulenta campagna antioccidentale, dove Mosca e Pechino hanno trovato terreno fertile per inserirvisi, sciorinando una retorica di comunanza con i fratelli africani, tutti accomunati dal tentativo di liberarsi dal giogo euroatlantico.

Il golpe in Niger (e anche quello più recente in Gabon) denunciano plasticamente come i rapporti di forza in Africa siano oramai irrimediabilmente cambiati e a farne le spese è soprattutto Parigi, ma anche l’Europa.

Nel leccarsi le ferite la Francia (ma in senso più ampio l’Occidente tutto) deve compiere un difficile esercizio di autocritica, allineando i diversi frammenti che hanno portato a scardinare l’influenza euroatlantica, permettendo al contempo un’infiltrazione sino-russo-turca nel continente Africano.

Lo stigma del Colonialismo

L’epoca coloniale ha portato in dote negli ex possedimenti transalpini un forte risentimento antifrancese. Deportazioni, lavoro forzato, espropriazioni di terre, sfruttamento intensivo delle risorse del sottosuolo, sono solo alcune delle cicatrici lasciate nel cuore degli africani a causa del dominio coloniale di Parigi. Il fermento scatenato dallo scramble for Africa[1], portò la Francia ad annettere milioni di chilometri quadrati (per lo più desertici) principalmente in Africa Occidentale.

Le popolazioni sottomesse furono costrette a un’assimilazione forzata, nel tentativo velleitario di creare nuovi cittadini francesi, cancellando il retaggio ancestrale dei popoli indigeni. Il periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale però sancirà il declino dell’impero coloniale francese.

Movimenti indipendentisti gemmarono di fatto in tutto il continente, sospinti in molti casi dal sostegno di Mosca, costringendo spesse volte le forze armate francesi a durissimi scontri, come in Algeria e in Indocina (guerra ereditata poi da Washington, che si impantanerà in Vietnam per più di due lustri).

La Françafrique

Il 1960 viene spesso descritto come l’anno dell’Africa. Molti paesi ottennero l’indipendenza dalle potenze coloniali proprio in quel fatidico anno. Il termine Françafrique fu coniato dal Presidente Ivoriano Houphouët-Boigny, che auspicava per il proprio paese e per i suoi vicini un rapporto privilegiato di interscambio economico e culturale con Parigi.


L’Esagono, allora guidato dal Generale De Gaulle, con il fondamentale aiuto del Segretario generale dell’Eliseo, Jaques Foccart, interpretò a modo proprio l’etimo della parola Françafrique e le speranze dei leader dei neonati stati africani che si celavano dietro di essa.

Per Parigi l’obiettivo fissato era quello di mantenere le ex-colonie all’interno dell’orbita occidentale poiché “incapaci” e troppo acerbe per scegliere autonomamente. Washington aveva di fatto subappaltato a Parigi il compito di mantenere lo status-quo filoccidentale nelle neonate nazioni africane, evitando indesiderate sbandate verso il mondo comunista.  

In contropartita la Francia avrebbe continuato a beneficiare di materie prime a prezzi irrisori per alimentare la propria macchina industriale. Esclusi dalla catena del valore e vincolati allo status di bacini di materie prime da razziare, i paesi africani non beneficiarono di sostanziali segni di progresso economico e sociale dall’interscambio con la Francia.

Al fine di mantenere la situazione cristallizzata, l’Eliseo finanziò, promosse e appoggiò svariati golpe nei paesi sotto la propria sfera d’influenza; esempio plastico fu la destituzione del Presidente Burkinabé Thomas Sankara.

Il signoraggio bancario

Le dodici ex-colonie francesi d’Africa sono accomunate oggi (come in passato) da una valuta comune, il franco CFA. A queste si aggiungono la Guinea equatoriale e la Bissau per un totale di quattordici stati facenti parte dell’area CFA.

CFA, inizialmente acronimo di Colonies françaises d’Afrique, a seguito delle spinte indipendentiste africane, si decise di cambiarne il nome in Communauté Financière Africaine (senza tuttavia cambiarne l’acronimo).

Il CFA è a sua volta suddiviso in due sottocategorie, lo XAF e lo XOF, rispettivamente il Franco dell’Africa Centrale e quello dell’Africa Occidentale, intercambiabili comunque tra loro. Il tasso di cambio con l’euro è fisso con un rapporto di convertibilità di 1 euro per 655 CFA. Ciò dovrebbe teoricamente contribuire a stabilizzare l’area dove vige la moneta comune, evitando la svalutazione incontenibile tipica delle valute africane.

Purtroppo, però per garantire il tasso di cambio ancorato all’euro, oltre il 50% delle riserve valutarie dei paesi aderenti al CFA devono essere detenute in Banca di Francia. Ciò, oltre che arricchire Parigi, impedisce contestualmente libertà nelle politiche monetarie dei paesi aderenti, in quanto queste ultime sono di fatto decise in Francia.

Le proteste crescenti sia in Africa che in Occidente (si ricordino i molteplici attacchi verbali lanciati sia dall’allora ministro de Lavoro Di Maio che dall’attuale Premier Giorgia Meloni, quando quest’ultima era all’opposizione), hanno portato all’ipotesi di abbandonare il CFA in favore di una nuova moneta, l’ECO, al momento poco più che una suggestione.

La fine della Françafrique

Per tutte le suddette ragioni (ma non solo), non desta dunque grande stupore come oggi l’Africa voglia smarcarsi dalla longa manus di Parigi. Un ottenebrato Macron a fine settembre annunciava la fine della Françafrique. Seguiva l’annuncio del ritiro dell’ambasciatore e del contingente militare francese dal Niger.

Beffardamente è toccato a Macron dover annunciare la morte celebrale di un impero secolare, proprio a lui che aveva intessuto fastosi piani di rinverdimento dell’influenza francese nel globo, Africa compresa.

Invero il Presidente francese non ritrova oggi l’appoggio del suo popolo nel voler propugnare l’influenza transalpina nel Continente Nero. Oggi sono pochi i francesi che guardano all’Africa come a un’opportunità; la maggioranza della popolazione vede il continente come un fardello composito di spese militari folli, jihadismo antioccidentale e migrazione incontrollata.

Un problema solo francese?

Quanto accade nell’Africa Occidentale non è però un problema che riguarda solamente l’Esagono. I flussi migratori e l’estendersi a macchia d’olio nella regione delle influenze sino-russe sono problemi che riguardano tutta (o quasi) l’eterogenea famiglia europea.


L’Italia per il tramite del suo ambizioso Piano Mattei, potrebbe ritagliarsi un ruolo di primo piano in questa fase di transizione. Non sono pochi i paesi africani dove Roma è ancora vista con favore, come in Algeria, dove ancora ricordano il contribuito nostrano alla causa indipendentista antifrancese. Per sostanziare però le rinnovate ambizioni di politica estera, Roma dovrebbe cercare di gettare il cuore oltre l’ostacolo, coinvolgendo anche gli altri partner europei per un dialogo tra pari con le controparti africane e che sia profittevole per tutti.

Lo stigma del colonialismo è ancora vivo nella memoria delle popolazioni africane e l’approccio paternalista non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco dello sciovinismo antioccidentale dimostrato in questi ultimi anni dagli africani.

Ma siamo in ritardo, il tempo stringe e il condominio sino-turco-russo che si sta formando in Africa ci vede in netto svantaggio. Le lenti europee per leggere l’Africa non hanno sortito che effetti venefici negli ultimi anni. Che l’Africa sia un problema o un’opportunità, una cosa è certa, il continente a noi così vicino non può essere ignorato, altrimenti a farne le spese sarà l’Occidente nella sua interezza.

Credits: foto di Nothing Ahead da Pexels


[1] Con il termine Scramble for Africa – (tradotto non letteralmente) La Spartizione dell’Africa, si fa riferimento al periodo intercorso tra il 1880 e la fine della Prima Guerra Mondiale, nel quale le potenze europee si suddivisero le sfere d’influenza in ambito coloniale nel continente africano.

•  •  •

Condividi:

Carlo Andrea Mercuri

Carlo Andrea Mercuri

Analista geopolitico, si occupa da anni di questioni internazionali. Autore del libro Verità a Stelle e Strisce (Gruppo Albatros il Filo - 2017), ha collaborato con diverse testate per le sezioni esteri e geopolitica. Appassionato di storia contemporanea americana ed estremorientale.

Sottoscrivi
Notificami
guest
0 Commenti
Inline Feedback
Vedi tutti i commenti

Articoli Correlati

La Casa del Social Journalism

Contatti

Scrivi o invia un comunicato stampa alla redazione

Libertà senza Catene

L’unica vera guida per difendersi dalle banche e dal sistema che sta attanagliando famiglie e imprese. Clicca sul tasto per averlo GRATUITAMENTE
Non continuiamo a subire!

Iscriviti alla nostra Newsletter

Resta aggiornato ogni settimana sui nostri ultimi articoli e sulle notizie dal nostro circuito.