LA CASA DEL SOCIAL JOURNALISM

Teatro bombardato

I fantasmi del palcoscenico

Pascal La Delfa

Memorie del sottosuolo

Vi ricordate quali furono i primi luoghi pubblici a chiudere e gli ultimi a riaprire durante la famigerata pandemia? Già: teatri e cinema. Una crisi eccezionale, che colpì in maniera feroce il mondo della cultura e il suo indotto. Eppure, vi capita di vedere in giro qualche attore o attrice di fama che abbia dovuto cambiare lavoro? Qualche grande teatro caduto in disgrazia? Qualche ente lirico chiuso per fallimento? Ebbene, la risposta è no. E diciamo subito “per fortuna”, onde evitare di essere tacciati di jettatori! Il Ministro dei Beni Culturali di allora (il pluri-confermato Franceschini) aveva infatti provveduto a sostenere (con un bel po’ di soldini) i grandi teatri, le compagnie rinomate, gli enti statali e parastatali accreditati al sistema. Alcuni proprietari dei teatri, hanno anche approfittato dell’occasione del bonus edilizio del 110% per ammodernare i propri edifici, sempre con i fondi dello Stato (dei cittadini). Bene, grazie. Tutto questo sano accudimento però è avvenuto appunto per i grandi teatri e le compagnie note che già erano nel giro dei consueti contributi statali, alcuni dei quali erogati praticamente a fondo perduto. E i piccoli, i meno conosciuti? I giovani? Quelli che non avevano (né tuttora hanno) accesso ai fondi statali, ai contributi del Fondo Unico per lo Spettacolo, che non facevano parte di Enti lirico-sinfonici o progetti speciali del Ministero e non rientravano nell’Art bonus o nella Tax credit? Quelli che non erano i soliti venti/trenta artisti che frequentano le passerelle dei festival e i film dei soliti dieci registi italiani? E tutti i lavoratori legati al mondo dello spettacolo che non hanno un impiego fisso? E che fine ha fatto la geniale idea del “Netflix della cultura italiana” lanciata per riprendersi dalla crisi? Eh, queste sono le vere domande. E le risposte, ahimè, abbastanza tragiche.

AbbonaMenti

Con la diffusione delle piattaforme di cinema e serie tv conseguenti alla pandemia covid-19, le sale cinematografiche non si sono mai riprese dal colpo: ancora oggi, a (solo) un anno dalla totale riapertura delle sale, gli spettatori del cinema rimangono pochi, pochissimi. La ripresa c’è, ma non sufficiente: ritornano timidamente alcuni spettatori ma non gli incassi pre-covid dai dati di fine anno scorso, visibili qui. Un flebile segnale che sembrerebbe fare invertire la tendenza, è definito dai recenti dati di queste ultime settimane: spettatori che forse cercano refrigerio nelle arene all’aperto e con proiezioni spesso gratuite (grazie a bandi pubblici) o a prezzi più che popolari (grazie agli investimenti del governo e delle associazioni di categoria). Ma assomiglia a un fuoco di paglia, destinato a spegnersi alla chiusura degli schermi estivi: sembra già di sentire i gestori dei cinema che si allarmeranno per gli introiti autunnali, come avvenuto, ahimè, negli ultimi anni. Chissà se basteranno gli interventi attuali proposti dal governo per riportare gli spettatori al cinema, scollandoli dai divani telecomandati: David (di Donatello) contro Golia. Il “netflix della cultura italiana”, in cui lo Stato aveva investito almeno 30 milioni di euro, è invece morto in culla. Per ricordarvi in cosa consisteva la brillante iniziativa e come sia tragicamente finita, basta approfondire sul web con articoli come questo. E i produttori cinematografici ormai sono per la maggior parte dipendenti dalle piattaforme televisive, che finanziano parte della produzione cinematografica: di conseguenza, si produrranno sempre più opere destinate al consumo “da abbonaMenti”. Si potranno realizzare pellicole che non siano destinate a una cultura di massa più simile alle proposte televisive che a quelle, nobili, ambiziose, a volte spudorate, della settima arte?

Il sorpasso

Ma parliamo di “buone notizie”. Per inquadrare meglio il fenomeno, si può forse proporre un parallelismo con gli spettatori degli stadi: già nel 2016 avvenne il celebre sorpasso tra il pubblico degli stadi e quello degli spettacoli dal vivo. Anche lì (senza pandemia…) in occasione della diffusione popolare degli eventi sportivi sulle piattaforme televisive: una attività simile avvenuta invece appunto in conseguenza dell’evento pandemico per quanto riguarda il cinema. E gli ultimi dati confermano che gli spettatori degli eventi sportivi sono nettamente inferiori a quelli di cinema (nonostante tutto) e teatri. I frequentatori dei teatri, dopo il lungo lutto imposto dal Covid-19, tornano ad aumentare, e tornano a fasti di altri tempi. Come mai? Eppure, per molti cinema e teatro sono quasi dei sinonimi per “attività di intrattenimento”. Dunque, senza inoltrarci in indagini antropo-sociologiche che non ci competono, né tantomeno nel proporre una stupida e inutile sfida “cinema vs teatro”, poniamo semplicemente una domanda: “Perché si va a teatro?”.  Certamente non per manifestare il proprio status, come ancora accade in certe occasioni (vedi, ad esempio, la prima della Scala di Milano) che hanno il sapore di stoiche rievocazioni storiche. E il teatro non è solo lo spettacolo.

Dietro le quinte

Vi proponiamo un passo indietro, anzi dietro (le quinte). Cosa si fa in un teatro? “Degli spettacoli!”, direte voi. No, non solo. Un teatro vero non propone solo rappresentazioni teatrali. Un teatro vero propone incontri, laboratori teatrali e artistici, conferenze, presentazioni di libri, corsi di approfondimento per professionisti e amatori, mostre temporanee d’opere d’arte, scuole di recitazione, scuole di arti e mestieri legati al mondo dello spettacolo… Insomma non solo luoghi di proposte culturali “usa e getta”, ma luoghi di possibili incontri, di scambi di idee e opinioni, di relazioni sociali, di rapporti con il territorio, di contaminazioni culturali, di confronto e innovazione. Tutte cose che evidentemente, per chi eroga i fondi pubblici, sono superflue. O perlomeno di cui non se ne tiene conto, dato che centinaia di luoghi non inseriti negli elenchi dei destinatari “ufficiali” del MiC, hanno chiuso durante la pandemia e non hanno più riaperto. Probabilmente (è solo un’ipotesi, ma aspettiamo degli esperti statistici che incrocino i dati a disposizione nell’ultima pubblicazione ISTAT di inizio luglio, e che ci riserviamo di approfondire in un prossimo articolo) il colpo di grazia è stato dato anche dall’esecuzione del RUNTS (il registro unico del terzo settore): creato e pensato (con e) per le grandi associazioni nazionali, non ha tenuto conto delle piccole associazioni. Strutture che non possono permettersi un commercialista a tempo pieno, ad esempio, o stipendiare degli impiegati per il disbrigo di pratiche burocratiche (attività finora più o meno gestite in forma volontaria dagli stessi associati) o l’affitto di locali onerosi. Con il RUNTS, molte associazioni sono destinate a chiudere, perché gli aggravi diventano molteplici, sia in termini economici che in termini organizzativi. Ebbene, molti dei piccoli teatri, compagnie o gruppi di espressività artistica, sono associazioni: non solo hanno già difficoltà ad accedere ai fondi pubblici, ma in più si ritrovano in una gestione ancora più onerosa della struttura (non solo uno spazio fisico, ma anche l’ordinaria amministrazione). Nella pagina del RUNTS si specifica bene “chi può iscriversi al RUNTS”. Il punto non è “chi può iscriversi”, ma il punto è che se non ci si iscrive, di fatto, a breve praticamente cesserà il poter effettuare qualsiasi attività culturale o perlomeno sperare in un seppur blando accesso a finanziamenti di qualsiasi tipo, o alla partecipazione a bandi nazionali (da quelli statali a quelli locali, ma anche a  quelli privati) che permettano il sostentamento delle attività. Insomma, un obbligo fatto passare come una possibilità (avete presente quando accedete allo SPID e vi chiedono, ipocritamente, se consentite la condivisione dei dati personali? Se rifiutate, non potete accedere. Quindi, che domanda è se la risposta è obbligata?). Già, di fatto, essere una associazione culturale impone per legge che non si abbia lo scopo di lucro. Il principio è eticamente comprensibile, ma è bigottamente collegato col peccato originale del “non si mangia con la cultura”, manco fosse la mela di Eva.

Il peccato originale

Ma perché? Perché il proprietario di una squadra di calcio può avere bilanci miliardari senza investire nel sociale, un produttore cinematografico o teatrale può arricchirsi producendo e diffondendo spettacoli discutibili e una piccola associazione culturale deve fare i salti mortali per dimostrare di essere fondamentale per il tessuto sociale (e quindi economico!) del territorio, nonostante si occupi del benessere dei cittadini (spesso laddove le istituzioni sono assenti o “distratte”)? Avendo, con l’ingresso del RUNTS, una serie di adempimenti e costi affrontabili solo da associazioni con fatturati importanti? La domanda rimane tristemente aperta: prevediamo che, come successo già con molte compagnie teatrali e spazi piccoli che non si sono più ripresi dalle conseguenze pandemiche, l’elenco dei “piccoli” che chiuderanno, sarà sempre maggiore. Come le botteghe dei centri storici a vantaggio dei centri commerciali. E qui non si parla di perdite di lavoro (‘chè queste persone non si sono mai arricchite con il proprio lavoro, e a volte neanche ci campano!), ma di perdita di offerte culturali anche verso categorie fragili, di luoghi di periferia difficili da integrare, di possibilità rivolte a giovani, di connessioni con le scuole, la comunità educante… Le persone hanno fame (e necessità) di incontri e socializzazione, di eventi dal vivo e in presenza. Possibile che, in un mondo che va inesorabilmente verso la digitalizzazione e l’isolamento fisico, non si comprenda l’importanza della socializzazione che avviene grazie alle occasioni collettive create dagli aggregatori culturali (teatri e associazioni)?

Cambiare metro e merito

Scopo di queste nostre umili righe, è il sottolineare il valore sociale del teatro, in tutte le sue accezioni: non solo degli spettacoli dal vivo, ma di tutto quello che fa un teatro (una associazione culturale) e che passa spesso sotto silenzio, quantomeno nelle statistiche ufficiali che misurano quasi sempre solo il numero di spettatori di un evento e non l’impatto sociale di cui sopra.  E’ ovvio che un musical al Sistina di Roma faccia molti più spettatori di una piccola associazione culturale di Canicattì. Ma forse, è più utile sostenere il lavoro a Canicattì, anziché quello di Roma, per una serie di motivi, in parte ovvi (come le proposte culturali, la necessità di uscire fuori dai centri, le opportunità da dare democraticamente a tutti). Si dovrebbe parlare, come dice qualcuno, di welfare culturale, forse addirittura di accudimento culturale. Che non si traduca in assistenzialismo, ma in opportunità di confronto e crescita, di professionalizzazione ed eccellenze. Un lavoro teatrale di Dario Fo, negli anni Sessanta, si intitolava: “L’operaio conosce 300 parole, il padrone 1.000. Per questo lui è il padrone”. Se chiude un teatro, un’associazione culturale che si occupa di attività espressivo-artistiche, non si privano solo gli spettatori di uno spettacolo. Si priva una popolazione di un’opportunità irripetibile: come già detto, incontri, confronti, spazio a giovani artisti, occasioni di socializzazione, avvicinamento alle arti, crescita e riflessione… Per non parlare dei più fragili: persone anziane, cittadini disabili…Ma non solo! L’isolamento da Covid ha provocato dei terribili disastri nei giovani, di cui parleremo a brevissimo in un nuovo articolo.

Prossimamente su questi schermi

Pare che il nuovo governo Meloni sia intenzionato a finalizzare un’idea che circola da qualche anno nell’aria: la definizione delle imprese culturali e creative, come riconoscimento del valore e delle possibilità di questo ambito, spesso bistrattato e sottovalutato nonostante dati e numeri. Ma sarà l’occasione per valorizzare e sostenere il lavoro delle piccole imprese culturali (associazioni e organizzazioni culturali, piccoli teatri, spazi autonomi…), o un ennesimo sistema che delegherà ai più grandi la gestione di attività che in questi anni hanno prodotto aziende private (o grandi cooperative, o rinomate “fondazioni”…) che hanno fatto da asso pigliatutto nell’ambito della cultura, dimenticando però il prezioso e indispensabile lavoro di chi lavora nell’infinitamente piccolo?

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Pascal La Delfa

Pascal La Delfa

Autore, regista e formatore, si occupa di attività artistiche e teatrali, anche in contesti di disagio e fragilità e in progetti europei. È stato autore anche per la Rai e formatore e regista per aziende internazionali. Collaboratore esterno per alcune università italiane, è direttore artistico dell’associazione Oltre le Parole onlus di Roma. Fondatore del “premio Giulietta Masina per l’Arte e il Sociale”. Di recente uscita un suo saggio sul Teatro nel Sociale.

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