Cosa hanno in comune Omero, Beethoven, Django Reinhardt, Giorgio VI, Simona Atzori, Beatrice Vio? Semplice: insieme a tanti altri uomini e donne si sono espressi al meglio proprio in quei campi dove una grave disabilità avrebbe loro impedito persino l’accesso. La necessaria semplificazione riduce l’elenco, molto più corposo, di uomini e donne “diversamente abili” che hanno sublimato la propria condizione attraverso l’essenza del Sé e la persistenza del loro modo di essere.
Il mito ci consegna la figura di Omero come quella di un grande poeta cieco che ha donato all’umanità l’Iliade e l’Odissea. I fondamenti storici sono da verificare, ma il forte significato simbolico di chi, senza vista, ci “mostra” i valori e le passioni della sua epoca con un’abilità senza uguali, persiste anche a distanza di quasi trenta secoli.
Beethoven, pianista, direttore d’orchestra e unanimemente riconosciuto come uno tra i più importanti compositori di tutti i tempi, compose alcune tra le sue più grandi opere, tra cui la Nona Sinfonia, pur essendo diventato sordo.
Django Reinhardt è considerato un grande virtuoso della chitarra; eppure a 18 anni, in seguito ad un incendio, aveva perso l’uso della gamba destra e soprattutto di parte della mano sinistra. Aveva anulare e mignolo gravemente menomati e, considerato che il pollice sinistro serve principalmente come appoggio alla mano, praticamente suonava con “due dita e mezzo”. Nonostante questo, le registrazioni testimoniano la grandissima abilità di questo artista vissuto dal 1910 al 1953.
La storia di Giorgio VI è stata resa nota anche attraverso la trasposizione avvenuta nel film Il Discorso Del Re. Il sovrano vinse la sua balbuzie dopo anni di logopedia e riuscì a tenere, il 3 settembre 1939, un discorso importantissimo per la sua nazione perché segnava l’entrata in guerra della Gran Bretagna contro la Germania nazista.
Simona Atzori (nella foto di apertura) insegna, attraverso la grazia della danza di un corpo senza braccia, l’importanza di cogliere la sostanza dell’armonia e della bellezza; la schermitrice “Bebe” Vio evidenzia la determinazione di chi fa sport attraverso la “ricostruzione” del fisico e della mente, passando dalla consapevolezza del “sentire se stessi” all’energia vitale da trasmettere a chiunque.
D’altronde tutti noi, nelle difficoltà della vita che ci fanno vacillare e nella vecchiaia che rende “pesanti” i gesti quotidiani, siamo destinati prima o poi alla disabilità, a dipendere dall’aiuto degli altri. Fornire gli strumenti di espressione senza preconcetti e senza pietismi superflui, significa anche voler dialogare alla pari con chi ha imparato a rivolgersi a se stesso in funzione del mondo.
A questo proposito, ci sarebbe un’altra vicenda storica eclatante da proporre, una testimonianza di quanto la “diversità”, la disabilità, abbia contribuito alla vittoria contro la “normalità del male”.
Durante l’Olocausto, un uomo affetto da una grave malattia agli occhi, Otto Weidt, proprietario di una fabbrica di scope e spazzole, dette lavoro e rifugio a ebrei (soprattutto ciechi e sordi), contravvenendo alla visione nazista del mondo che prevedeva per costoro una morte “pietosa e necessaria, per non sprecare soldi pubblici”. Risulta che Weidt scambiò i suoi prodotti per cibo destinato sottobanco ai centri di detenzione, corruppe responsabili nazisti per sottrarre ai campi di concentramento dei lavoratori e, dopo la guerra, aprì un orfanatrofio, oltre a una casa di riposo per anziani soli. Venne proclamato “Giusto tra le nazioni” e sulla sua vicenda è stato girato un film.
Insomma, la malvagità può essere combattuta e vinta da chiunque abbia il coraggio della solidarietà, in qualunque situazione. Di conseguenza, il cieco non è più colui che non può guardare gli oggetti, ma colui che non è in grado di “vedere l’uomo”, l’essere vivente che gli sta di fronte, così come non è in grado di concepire il rispetto e il dialogo che ne scaturisce con la natura che lo circonda.