Fabrizio De André diceva che le canzoni sono importanti perché aiutano a formare la coscienza di un popolo. Dalle neuroscienze si sa che la musica “arriva prima” del linguaggio e comunque consente di catturare meglio le emozioni, di accomunarle e di creare un’appartenenza, una univocità di intenti.
Con queste premesse, c’è da riflettere sul significato del riadattamento del testo di “Bella ciao” operato dalla cantante folk Khrystyna Soloviy in un video diffuso sui social a marzo 2022.
Bella Ciao, canzone di autore sconosciuto, pare non sia collegata direttamente al periodo storico della Resistenza italiana: deriverebbe da un canto di lavoro delle mondine o forse da un motivo del Cinquecento francese o addirittura da melodie Yiddish… e comunque ha iniziato a diffondersi circa vent’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
A ogni modo è considerata in tutto il mondo un inno alla libertà dei popoli, in opposizione all’oppressione delle dittature e alla violenza della guerra. Se ne contano traduzioni in oltre 40 lingue oltre l’italiano, tra cui arabo, turco, giapponese, spagnolo, danese, tedesco, inglese e anche ucraino. La sua importanza storico-culturale è stata testimoniata in diverse occasioni: è stata cantata, ad esempio, nel 2013 dal coro dei manifestanti ad Istanbul contro il premier turco Erdogan; nel 2015 nel corso delle commemorazioni delle vittime del giornale satirico francese Charlie Hebdo; nel 2022 è in alcuni video di donne iraniane, associata alle proteste contro il regime di Teheran.
Nel testo originale italiano si fa riferimento al diritto di ribellarsi all’invasore ma il tono è vagamente malinconico, porta a pensare ad una guerra non voluta, agli affetti a cui si deve rinunciare e all’importanza di lasciare un esempio di amore per la libertà attraverso il “fiore del partigiano” che nasce dai suoi resti terreni. Non ci sono riferimenti espliciti, né politici e né religiosi.
La Soloviy ha riscritto il testo della canzone riadattandone i contenuti alla guerra in atto contro l’invasione russa. La canzone, re-intitolata “L’ira ucraina“, recita: “(…) Uccideremo i boia maledetti senza pietà/ Coloro che stanno invadendo la nostra terra”, e ancora: “Nella difesa territoriale ci sono dei ragazzi migliori/ Nelle nostre forze armate combattono veri eroi/ E i Javelin e i Bayraktar [nomi di missili e droni] Uccidono i russi per l’Ucraina/ E il nostro popolo, gli ucraini/ Hanno già unito il mondo intero contro i russi/ E molto presto li sconfiggeremo/ E ci sarà la pace su tutta la Terra“.
Il video del brano è diventato virale. Su Instagram ha superato le 540mila visualizzazioni mentre su YouTube, in poco più di 24 ore, ha raggiunto le 82mila visualizzazioni.
A parte la rivisitazione in chiave violenta del testo originale, c’è un particolare che inquieta: nella bacheca Facebook di Khrystyna Soloviy campeggia una foto dei suoi anfibi inneggianti a “nostro padre Bandera”. Il riferimento è a Stepan Bandera, capo dei nazionalisti ucraini che, nella Seconda Guerra Mondiale, giurò fedeltà a Hitler e che oggi è ricordato dagli ultra-nazionalisti di estrema destra.
A questo punto ritorniamo al concetto deandreiano iniziale: “le canzoni servono a formare una coscienza” e quindi si prestano a diffondere messaggi sia immediati che “derivati”. Le parole hanno un peso e quelle che prendono di mira popolazioni intere o inneggiano a un passato che l’umanità non vorrebbe ritornasse, andrebbero forse accuratamente meditate.
Del resto, non si possono “uccidere tutti i nemici” e poi, dopo questo massacro, arrivare alla pace, come invece sostiene la canzone. Dopo il conflitto armato viene il tempo di appianare le divergenze attraverso il dialogo, il compromesso, la comprensione umana e l’umiltà (parole richiamate dal Dalai Lama). Lo spirito di un artista libero del ventunesimo secolo, come quello di un politico, forse è giusto che anche in tempo di guerra sappia “preparare” la consapevolezza della pace.