Assistiamo in questi giorni ad atti di vandalismo da parte di ambientalisti, cosiddetti attivisti ecologici, spesso molto giovani, contro opere d’altissimo livello artistico, architettonico e tutto ciò che è rappresentativo di uno status istituzionale.
Per cosa protestano? Ce lo domandiamo con animo aperto e spirito garantista cercando di capire le ragioni di questi ecologisti, che pretendono un pianeta in condizioni migliori di come lo hanno ricevuto. Non vi è dubbio che noi tutti oggi stiamo consegnando alle generazioni future un habitat in pessimo stato, il peggiore di sempre, come si evince dalle ricombinate conseguenze del surriscaldamento e quindi dei cambiamenti climatici.
Per rispondere con obiettività a questi ambientalisti (e aprire gli occhi a tutti gli altri), dobbiamo innanzitutto tirar fuori la testa da sotto la sabbia, poiché in sabbia stiamo riducendo fiumi, laghi, invasi acquiferi, e presto anche i ghiacciai alpini e addirittura quelli polari.
Purtroppo sarà alquanto difficile riconsegnare la casa comune in condizioni migliori di come l’abbiamo ereditata. E ciò perché il problema ambientale è anche e soprattutto un problema demografico. In soli ottant’anni – dalla seconda guerra mondiale a oggi – la popolazione mondiale si è quasi quadruplicata raggiungendo gli 8 miliardi di passeggeri su questa navicella spaziale.
Dall’andamento disastroso dell’evoluzione demografica deriva, inoltre, l’incremento indiscriminato delle produzioni alimentari: vedi gli Ogm, gli allevamenti intensivi, i disboscamenti della foresta amazzonica e di quelle sud-orientali asiatiche (ma anche di quelle nostrane) per produrre legno da utilizzare per le costruzioni e per l’arredamento e anche per alimenti che magari vengono poi messi al bando, come è accaduto con l’olio di palma.
La squilibrata crescita della popolazione mondiale e i conseguenti incrementi di tutti i tipi di consumi portano agli impressionanti sprechi energetici che causano emissioni di Co2 senza controllo. Nei passati decenni qualche risultato positivo è stato ottenuto con il divieto d’uso dei gas Crf per il funzionamento dei frigoriferi e delle bombolette spray, che ha consentito di ridurre il buco nell’ozono che aveva scoperto tutto il polo antartico. Così come con la messa al bando del Ddt, seppure solo molto tempo dopo la documentata denuncia della biologa statunitense Rachel Carson nel suo libro Primavera Silenziosa del 1962.
Ma il problema demo-ecologico-ambientale non è una novità del nostro tempo. E’ stato sollevato ufficialmente per la prima volta dall’economista inglese Thomas Robert Maltus nel Saggio sul principio della popolazione (1798). Dalla sua tesi sul necessario ricorso al controllo delle nascite prese spunto anche Charles Darwin per la teoria della sopravvivenza e della selezione naturale. Nel 1848 il filosofo ed economista inglese John Stuart Mill, nei Principi di economia politica, condannò gli aumenti incontrollati di popolazione e consumi. Nel 1854 Henry David Thoreau scrisse il romanzo naturalista Walden, vita nei boschi; nel 1874 George Marsh pubblicò L’uomo e la natura, definendo il concetto di ambiente.
Nel 1896 Svante Arrhenius (chimico svedese, insignito del Nobel nel 1903) fu il primo a parlare di cambiamento climatico dovuto alle attività industriali. Ma fino alla citata messa al bando del Ddt l’interesse della politica internazionale sul tema era piuttosto latente. Si è riacceso solo in tempi più recenti a seguito degli allarmi lanciati dagli studiosi sugli effetti del fenomeno della sovrappopolazione: stagnazione economica e culturale, degrado e distruzione dell’ambiente.
Uno dei contributi più importanti in questo senso è sicuramente quello offerto da Paul Elrick, professore emerito all’Università di Stanford, con la pubblicazione di The Population Bomb (1968), un’analisi lucida ed esaustiva sulle cause dirette e indirette del disastro ambientale.
Arrivando ai giorni nostri, sulla spinta delle lobby ecologiste internazionali, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, corredata da una lista di 17 obiettivi e 169 sotto-obiettivi, che riguardano tutte le dimensioni della vita umana e del pianeta e che dovranno essere raggiunti da tutti i paesi del mondo entro il 2030.
Con l’adozione dell’Agenda 2030 non solo è stato espresso un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo, ma si è superata l’idea che la sostenibilità sia unicamente una questione ambientale, a favore di una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo: economia, ambiente, società, istituzioni.
L’obiettivo dichiarato è di impedire quello che lo stesso segretario generale dell’Onu ebbe a definire in una assemblea pubblica dell’anno scorso un “suicidio collettivo”.