Sulla necessità di stili di vita rispettosi dell’ambiente concordano ormai tutti. I più, però, solo a parole. Noi abbiamo immaginato una favola per descrivere le conseguenze dei nostri comportamenti. Anzi tre versioni di una favola: una “pessimistica”, una “probabilistica”, l’altra “ottimistica”.
Sono tre scenari che hanno come ambientazione la Polinesia, più precisamente l’isola di Pasqua (o di Rapa Nui), scoperta da un esploratore olandese nel 1722, le cui caratteristiche sono: l’assoluta mancanza di alberi ad alto fusto, i forti venti, le coste molto ripide, l’assenza di abitanti e centinaia di statue antropomorfiche monolitiche, alte dai 2 ai 10 metri e rappresentanti busti umani dalla testa allungata e gigantesca: i cosiddetti Moai.
L’ipotesi pessimistica presenta parecchi elementi accreditati dagli studiosi. Gli abitanti dell’isola, incapaci di dedicarsi a uno sfruttamento razionale delle limitate risorse naturali (legno, pietra, tufo vulcanico, oltre a foreste e animali), non si preoccupano di operare un controllo demografico in grado di adeguare i bisogni collettivi alle risorse disponibili. Al contrario, danno vita ad un disboscamento selvaggio per innalzare le mastodontiche sculture a significato religioso (o forse di celebrazione socio-politica dei regnanti), esaurendo a poco a poco tutte le risorse naturali dell’isola. Religione e politica, in questa situazione, possono solo proporre visioni trascendenti di accettazione del fato e soluzioni tampone fatte di razionamento e rinunce. Alla fine muoiono tutti, lasciando solo delle misteriose statue gigantesche sulla riva della spiaggia a testimonianza della loro arte, oltre ai resti degli edifici in un territorio reso completamente inospitale. Non è necessario che la mentalità autolesionistica sia stata costante tra le generazioni; è sufficiente che essa abbia costituito una “abitudine dominante“, non supportata da una visione globale e lungimirante dei pericoli dello sfruttamento eccessivo del territorio.
Nella seconda versione del nostro racconto di fantasia, quella probabilistica, la popolazione dell’isola è in crescita e la tecnologia per navigare almeno sulle medie distanze c’è, solo che non si vedono altre isole all’orizzonte e sarebbe un rischio avventurarsi nell’oceano. Anche in questo scenario le risorse naturali si stanno esaurendo. In più, le imbarcazioni che si possono costruire con il legno sopravvissuto ai vari disboscamenti bastano per salvare solo una piccola percentuale di abitanti. Il potere politico e religioso si assume il compito di diffondere nella popolazione paura, diffidenza e superstizione, in modo da tenerla impegnata con la costruzione di opere gigantesche e inutili, i Moai, allo scopo di “guadagnarsi il favore degli dei”. La religione diffonde una sorta di “culto morboso della morte”, ben diverso dall’accettazione della propria natura mortale, che a sua volta produce indifferenza: una sorta di nichilismo misto a violenza. (Alcuni studiosi sostengono che ci possa essere stata veramente una tendenza in tal senso in alcune civiltà scomparse, come gli Etruschi e i Maya). La politica, dal canto suo, “distrae” i nativi ponendo al centro delle poche assemblee pubbliche, sempre meno seguite, problemi secondari con lo scopo di creare divisioni e diffondere ostilità verso il prossimo, oltre al timore di muoversi per l’isola. In questo clima di impotenza e paura, una piccola oligarchia può costruire comodamente, in segreto, le barche utili alla propria salvezza. Alla fine, possono salvarsi coloro che affrontano il mare, salutati come coraggiosi pionieri in cerca di aiuto. In questo caso, tuttavia, è molto probabile che i sopravvissuti non abbiano nessuna intenzione, una volta approdati in salvo in un nuovo mondo, di affrontare nuovamente i pericoli del mare per guidare spedizioni di soccorso: è più facile fornire spiegazioni false sulla loro provenienza e rimuovere dalla memoria la propria terra natale.
Il terzo scenario è quello ottimistico. La popolazione dell’isola si accorge in tempo della fine a cui sta andando incontro a causa di disboscamenti indiscriminati e perdita di raccolti, così effettua una “riconversione culturale”, divenendo solidale, incline al dialogo e allo scambio di informazioni. La stragrande maggioranza degli individui si dedica alla conoscenza di sé e del territorio, al modo migliore per comunicare con l’altro in maniera veloce ed efficace, sperimenta nuovi metodi di coltivazione che garantiscono cibo e scopre tecnologie che permettono una navigazione più sicura. Nel giro di poche generazioni costruisce barche per tutti gli abitanti, carica su di esse i viveri e lascia l’isola, giusto in tempo prima che le forze della natura abbiano il sopravvento sull’organizzazione dell’uomo. Delle antiche vestigia restano i Moai e altre figure artistiche, che ora servono ad invocare la protezione di dei e antenati per l’esodo da intraprendere. In questo scenario si salvano tutti. Inoltre i pasquensi, arrivati dopo varie peripezie in nuove terre, sono in grado di diffondere le scoperte acquisite, diffondendo una “cultura del dialogo con la Natura”.
Come detto, si tratta di una metafora con tre finali diversi da riferire al rapporto tra le scelte dell’uomo e la disponibilità della terra. Ma c’è una caratteristica che accomuna, nella realtà, le grandi teste dei Moai: sono tutte rivolte verso l’interno dell’isola, danno cioè le spalle al mare. Al di là dei significati per gli studiosi, forse anche questa costituisce una metafora importante. La si può immaginare come un invito, una preghiera quasi disperata da parte di una civiltà scomparsa, a “vedere” la terra da un’altezza (e quindi con un’estensione di pensiero) maggiore di quella consentita ai nostri occhi.
Morale (come in tutte le favole): per il nostro benessere e la nostra stessa sopravvivenza è tempo di rivolgerci ai nostri simili, alle altre specie e alle risorse a disposizione con la consapevolezza del “dialogo delle idee”, attraverso la voglia di conoscenza e il rispetto per l’unico pianeta che ci è stato concesso.