Quando ci rendiamo conto che aver seguito strade facili ha indebolito i muscoli del nostro corpo e della nostra mente, è vitale incamminarci su qualche difficile, ma promettente sentiero.
Se qualcuno si prendesse la briga di controllare le varie pubblicità apparse da inizio Novecento a oggi, dove si fa uso di una figura femminile, sicuramente noterebbe che la superficie di vestito utilizzata è andata costantemente e regolarmente diminuendo nel corso degli anni. Non è una semplice questione di cambiamenti nella moda perché questa, grosso modo ha visto sì una sua riduzione ma solo a grandi “scatti”: gonna alla caviglia (1900), al polpaccio (1930), al ginocchio (1950), sopra al ginocchio (1970). Nella pubblicità, invece, si tratta di una vera e propria curva discendente. Riduzione che non si riferisce solo alla parte “bassa” del vestito, ma anche a quella in alto, al centro, davanti e dietro.
La ragione è evidente: ciò che attira, che fa colpo oggi, domani sarà appena notato e dopodomani sarà ignorato. Così la pubblicità, per richiamare l’interesse del pubblico, ha dovuto man mano allargare i propri limiti e quindi restringere gli abiti delle modelle.
E questo, si badi bene, non è rivolto ad accaparrare l’attenzione del solo pubblico maschile, ma anche di quello femminile. Quest’ultimo vede in questi corpi così perfetti l’immagine che vorrebbe avere di sé. Non per nulla le pubblicazioni a più alto contenuto di nudi femminili (a parte le riviste porno) sono proprio quelle dedicate alle donne.
È ormai normale vedere in televisione, nei manifesti e sui giornali nudi (maschili e femminili) integrali sia dietro che davanti (in quest’ultimo caso salvo un piccolo specifico rettangolino). In attesa di far saltare anche quest’ultimo, la pubblicità sta utilizzando riferimenti sessuali sempre più espliciti. Ciò che dovrebbe appartenere alla sfera intima delle persone viene abbinato alla promozione di qualsiasi prodotto: dal liquore all’anticalcare, dal profumo all’automobile, dallo yogurt agli pneumatici.
Così quelle immagini che una volta erano considerate “da camionisti” e che passavano di mano in mano con una prudenza da cospiratori, ora vengono apertamente diffuse da molti pubblicitari nelle nostre case e nelle nostre strade, a colazione, pranzo e cena (e in tutti i tempi intermedi).
Assieme al dilagare dell’uso della sessualità nel campo pubblicitario (ovviamente non solo in questo) si diffonde sempre più l’uso della sua sorella gemella: la volgarità. Anche questa, infatti, non è mai sazia di sé stessa e – come la droga – richiede dosi sempre più massicce. Ciò che era un tempo definito linguaggio da scaricatori di porto, ora è sulle bocche degli studenti di ogni ordine e grado, dei loro professori, degli uomini politici, degli uomini e delle donne (che sembrano pervase dal bisogno di mostrarsi disinibite) di qualunque età ed estrazione sociale e, ovviamente, dei pubblicitari.
Ci troviamo così sovente di fronte a dei casi dove è chiamato a intervenire il garante della Pubblicità, il quale, in alcune situazioni, censura le stesse pubblicità. Ma per molti pubblicitari (e per le aziende che li pagano) l’unica cosa che conta è stupire. Pensiamo al caso di una ditta “seria” (o supposta tale) come la svedese Ikea che non ha saputo trovare di meglio che utilizzare per la sua pubblicità l’immagine di alcuni bambini che giocavano tra dei palloncini nei suoi centri babysitter, allestiti nei suoi negozi, abbinandole la scritta volgare e offensiva: “Lasciateci i vostri bambini, che ce li teniamo noi tra le [xxxxx]”. Oppure quell’azienda nel Lazio che ha dipinto sulle fiancate dei tram un fondoschiena “naturale” e la scritta “Noi non vi prendiamo per il [xxxx]”. O, ancora, la giovane signora seduta sul water con le mutandine abbassate per reclamizzare l’arredo bagno. Anzi, ora la posa “seduti sul water” va per la maggiore e per qualunque prodotto.
Non vogliamo qui fare un discorso etico o moralistico, ma una semplice riflessione sullo “stato dell’arte” nella comunicazione pubblicitaria (e non solo). E bisogna farla subito questa riflessione perché quando sarà stato fatto saltare anche il famoso rettangolino e quando si sarà fatto uso del sesso esplicito, cosa avverrà della pubblicità? Sì, perché ormai il confine dell’invalicabile è imminente. E non si tratta di un “invalicabile” secondo una qualche morale, ma tale semplicemente perché dopo … non c’è più nulla.
Chiediamoci allora: l’uso progressivo del sesso e della volgarità non rivela forse una mancanza di idee? Non sono forse l’uno e l’altro semplici e immediate scorciatoie quando non ci viene in mente niente altro di interessante?
La pubblicità che punta sul sesso dimostra di non avere più idee, rivela che quanto vuole reclamizzare è senza alcun appeal, visto che punta tutto sul… sex appeal di qualcos’altro.
Non è forse vero che la volgarità nella normale conversazione, nei pubblici dibattiti, nella comunicazione in famiglia, nei discorsi tra colleghi al lavoro, nei salotti televisivi, non nasconde altro che una pochezza di pensiero, una scarsità di motivazione, una debolezza di convinzioni?[1] Il linguaggio volgare non è forse tipico delle persone e delle situazioni aggressive? E non è forse assodato che l’aggressivo è un debole, il quale non trova altro modo per sfogare la propria frustrazione e debolezza?
La pubblicità, quando è volgare e aggressiva, dimostra di non avere altre ragioni da portare a sostegno del suo messaggio.
Nota: l’articolo prosegue e si conclude nella Seconda Parte
Credits: Foto di Stefan Keller da Pixabay
[1] Si noti, dall’altra parte, che questa “normalità” e accettazione delle espressioni e delle offese più volgari è accompagnata dall’intolleranza verso termini ben più blandi come avaro, indolente e sciocco se indirizzati a certe persone. Provate a dire “sei avaro come un ebreo”, o a dire a un negro che è indolente o a una donna che è sciocca e sarete subissati di insulti veramente pesanti e, se occupate un qualche posto pubblico o privato di una minima importanza, dovrete dare le dimissioni o sarete licenziati. Si prega di notare l’uso intenzionale dell’articolo indeterminativo “uno/una”.