L’unico, vero, inequivocabile, fallimento è quello di un sistema economico che non sia in grado di creare posti di lavoro adeguati per coloro che ne hanno necessità. Ed è un fallimento che, malgrado la nostra innata propensione ad autodenigrarci, non riguarda soltanto il nostro Paese e le sue gravi carenze funzionali, ma investe la comunità internazionale nel suo complesso, con delusione insanabile di quanti hanno creduto e operato per una sua armonica cooperazione. (Federico Caffè, 1977).
Il Rapporto Oxfam 2023 analizza il biennio 2020-2022 e denuncia la crescente dicotomia tra l’1% della popolazione mondiale, vale a dire i più ricchi tra i ricchi del pianeta e il resto dell’umanità:
“A fine 2022 l’1% più ricco della popolazione mondiale è arrivato a detenere il 45,6% della ricchezza globale, mentre la metà più povera dell’umanità appena lo 0,75%. Inoltre, il gotha degli 81 principali miliardari ha accumulato più ricchezza di metà della popolazione mondiale.”
I rigidi parametri da rispettare, in termini di inflazione, imposti da organismi sovranazionali, sono frutto di calcoli astratti dalla realtà e di negoziazioni meramente politiche con gli attori dell’alta finanza speculativa mondiale. Per raggiungere i risultati imposti si è agito sulla leva fiscale, con politiche fiscali talmente restrittive da soffocare la produzione e l’occupazione.
“Il capitalismo maturo, al pari di quello originario, poggia su sofferenze umane non contabilizzate, ma non per questo meno frustranti e degradanti.” (Federico Caffè)
Il famigerato limite del 3% del deficit è addirittura nato quasi per scherzo, senza alcun fondamento valido:
“Se mi chiede se la regola adottata oggi in Europa e in altre nazioni del mondo, tra cui Israele, Malesia e Cina, secondo cui il deficit di un Paese non debba superare il 3% del Pil abbia basi scientifiche, le rispondo subito di no. Perché sono stato io a idearla, nella notte del 9 giugno 1981, su richiesta esplicita del presidente François Mitterrand che aveva fretta di trovare una soluzione semplice che mettesse rapidamente un freno alla spesa del governo di sinistra che nel frattempo stava esplodendo. Così in meno di un’ora, senza l’assistenza di una teoria economica, è nata l’idea del 3%. […]. È nata su un tavolo, senza alcuna riflessione teorica. Mitterand aveva bisogno di una regola facile da opporre ai ministri che si presentavano nel suo ufficio a chiedere denaro. […]. Avevamo bisogno di qualcosa di semplice. Tre per cento? È un buon numero, un numero storico che fa pensare alla trinità […]. Qualche anno dopo ho lasciato il ministero delle Finanze per lavorare nel settore privato. Immaginavo che vi sarebbero stati degli studi più approfonditi, in particolare quando il parametro è stato esteso all’Europa. Eppure, il 3% rimane intoccabile, come una Trinità. Mi fa pensare a Edmund Hillary che, quando gli chiesero perché avesse scalato l’Everest, rispose:” Because it’s there”. Da quella sera del 1981 in cui il 3% è uscito a caso, esso è diventato il paesaggio delle nostre vite. Nessuno si domanda più perché. Come una montagna da scalare, semplicemente perché è lì.” (Guy Abeille)
L’arroganza degli economisti neoliberisti
Questa e altre rigide regole, nate per caso o per errati calcoli econometrici, stanno provocando un progressivo impoverimento delle nazioni cui vengono imposti. L’esempio di quanto accaduto in Grecia dovrebbe essere un monito e un motivo per modificare o, meglio, abolire del tutto queste regole palesemente errate. Il paradosso di questi decenni di austerità, il cui obiettivo avrebbe dovuto essere quello di rivolgere la spesa pubblica ai servizi pubblici, calmierare il mercato dei prezzi, in mano agli economisti neoliberisti si è rivelata un’arma contro l’occupazione, contro le economie locali, contro il benessere.
L’allora cancelliera tedesca Angela Merkel, nel 2008, anno in cui esplose la bolla speculativa dei mutui subprime con una perdita di 3,9 miliardi di dollari, disse “una casalinga potrebbe dirci che non si può vivere al di sopra dei propri mezzi e che si devono ridurre le spese”. Questa frase giustificava le manovre restrittive che si stavano attuando. Tuttavia, se la riduzione delle spese inutili è una normale reazione in una famiglia che attraversa un periodo di difficoltà economiche, NON lo è per uno Stato. La restrizione delle spese correnti, l’irrigidimento delle politiche fiscali, comporta, a livello di domanda aggregata, una diminuzione dei consumi e della crescita. La contrazione della domanda aggregata, dei consumi a livello generalizzato, comporta una flessione a cascata in ogni settore produttivo, con conseguenti contrazioni nella produzione e, dunque, licenziamenti, creando in tal modo una spirale verso il basso e una crisi generale, esattamente come accaduto in Grecia.
Ancora l’Oxfam, nel 2013, chiedeva di abbandonare la rigida politica dell’austerity:
“I programmi di austerità attuati in Europa hanno smantellato le misure di riduzione della disuguaglianza e di stimolo alla crescita equa. Con tassi di disuguaglianza e povertà in crescita, l’Europa sta vivendo un decennio perduto: se queste misure continueranno, altri 15-25 milioni di persone in Europa potrebbero diventare poveri entro il 2015. Oxfam conosce bene questa situazione, perché si è già verificata in passato. I programmi di austerità europei assomigliano alle rovinose politiche di aggiustamento strutturale imposte in America Latina, Sud-Est Asiatico e Africa Sub-Sahariana negli anni Ottanta e Novanta. Politiche fallite: medicine che curavano la malattia uccidendo il paziente non devono essere attuate di nuovo. Per questo chiediamo ai governi europei di allontanarsi dalle misure di austerità e scegliere, invece, un percorso di crescita inclusiva che porti a risultati migliori per le persone, le comunità e l’ambiente.”
Parole al vento…
Le politiche economiche attuali sono insane: un tasso di inflazione basso comporta una percentuale piuttosto elevata di disoccupazione. La disoccupazione comporta, dal punto di vista psicologico, la sensazione di incertezza per il futuro, con conseguente modifica dei consumi, rivolti verso merci di prima necessità, a basso costo e di basso valore. L’abbassamento degli standard di vita quotidiana porta a un abbassamento delle aspettative per il futuro, generando depressione, insoddisfazione e ricattabilità. I neoliberisti, tuttavia, ritengono necessaria una quota di disoccupazione, da loro definita fisiologica, per tenere bassa l’inflazione.
Si osservano i dettami di una teoria economica errata, che produce povertà, in nome di una inflazione da tenere artificiosamente bassa, puntando anche sul senso di colpa latente dei cittadini, che sentono di dover scontare la pena di aver vissuto al di sopra dei mezzi negli anni precedenti. Il senso di colpa così sottilmente instillato, come un veleno, è il motivo per cui si accettano carichi fiscali esagerati, disoccupazione, tagli continui alla sanità pubblica…
Manca la consapevolezza che, in realtà, negli anni in cui la crescita economica correva a due cifre, anche l’inflazione era a due cifre, si aveva un tasso di occupazione elevatissimo, i servizi pubblici erano efficienti, il costo della vita era adeguato e lo Stato aveva il controllo di una serie di attività economiche funzionali ed essenziali: erano gli anni in cui l’IRI faceva crescere l’Italia, tanto da diventare la quarta potenza mondiale.
Come per ogni cosa, anche l’economia ha dei cicli, pertanto, quando si verificò una flessione, del tutto naturale, invece di introdurre dei correttivi ponderati, si puntò alla teoria neoliberista. Iniziò l’Inghilterra, con la lady di ferro Margaret Thatcher, per poi dilagare per tutta l’Europa atlantista. Sono gli anni del divorzio della Banca di Italia dal Tesoro, protagonisti l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta e il governatore della Banca di Italia Carlo Azeglio Ciampi, senza passare per il Parlamento. Dal 1981, data di questo divorzio, iniziarono anche le manovre per cominciare a svendere il notevole patrimonio pubblico italiano, arrivando al fatidico 1992, anno del non ritorno. In quell’anno vi fu:
- Ratifica Trattato di Maastricht, che prevedeva l’unione doganale e l’avvio di una moneta unica.
- Trasformazione dell’IRI in SPA, che aveva iniziato la sua parabola discendente nel 1982, anno in cui fu affidata a Romano Prodi, con vendite delle attività, licenziamenti.
- Prelievo forzoso del sei per mille su tutti i depositi bancari (governo Amato).
In quell’anno si scrisse la parola fine alla crescita economica italiana e alla sovranità monetaria.
Ricatto ai cittadini
Gli Stati occidentali dell’area atlantista e globalista, che perseguono le politiche economiche fallimentari neoliberiste, sottopongono i propri cittadini a un serie di politiche del lavoro dal sapore di veri e propri ricatti. I contratti nazionali del lavoro, complici i sindacati, sono stati sottoposti a modifiche peggiorative degli standard lavorativi e delle retribuzioni. Si minacciano i lavoratori “recalcitranti” di licenziamento, i politici proclamano a gran voce che gli italiani non hanno voglia di lavorare e saranno sostituiti dagli immigrati, più o meno regolari.
Il grande inganno
il reddito di cittadinanza avrebbe dovuto fornire un aiuto materiale alle persone in stato di temporanea difficoltà e, nello stesso tempo, avrebbe dovuto rilanciare le politiche lavorative. In realtà questo non è avvenuto, né era auspicabile che avvenisse, considerato che il tasso di occupazione rappresenta una parte dell’inflazione. Il grande inganno è consistito nell’accontentare le persone con una modesta somma di denaro mensile affinché le stesse NON cercassero lavoro né una riqualificazione professionale.
Il reddito di cittadinanza rovescia il concetto del valore della risorsa umana in rapporto al lavoro, facendo passare l’idea che il lavoratore sia in una condizione di debito, per estinguere la quale debba accettare o lavori sottopagati o un sussidio che può essere tagliato in qualunque momento: chi riceve del denaro senza lavorare è facilmente ricattabile, considerato il messaggio colpevolizzante di una situazione debitoria.
Le attuali politiche economiche, oltre a essere inefficienti, raggiungono lo scopo di abbassare le aspettative delle persone, portando a una sorta di pessimismo, che configura il motto dei liberisti TINA, ossia “there is no alternative”, non ci sono alternative all’aumento dei tassi, all’aumento della disoccupazione, all’impoverimento individuale e sociale, con la svendita dei beni nazionali alle multinazionali capitanate dagli “incappucciati della finanza” (Federico Caffè).
Era già successo
“E’ sempre il costo del lavoro il grande imputato e la causa ultima cui viene ricondotta, nel nostro paese, la carenza di competitività.” (Federico Caffè)
Il capitalismo maturo, come insegnava Federico Caffè, comporta un impegno reale per uno Stato del benessere.
Una nazione non può definirsi realmente civile e democratica se non garantisce il benessere ai propri cittadini. Le teorie liberiste hanno preso il sopravvento quando la politica economica keynesiana ha mostrato un rallentamento, naturale e fisiologico. In quel contesto, sarebbero bastate delle manovre correttive soft, al contrario, si sono spalancate le porte a delle politiche restrittive, che hanno indebolito ulteriormente le economie nazionali. Per fare accettare le varie “finanziarie lacrime e sangue”, si è fatto leva sul senso di colpa delle persone. Il pensiero unico si è fatto strada sulle angosce e preoccupazioni e ha fatto passare il messaggio che:
“L’austerità sarebbe la giusta punizione da pagare per essere stati dissoluti e spendaccioni (PIIGS!). […] Le misure di austerità imposte da Bruxelles non sono solo inefficaci a livello economico, in quanto ostacolano la crescita anziché promuoverla, ma sono pericolose, se non letali quando applicate in campo sanitario […]. Nonostante i dati e le evidenze, il senso di colpa fomentato dalla narrazione convenzionale attecchisce nell’opinione pubblica meglio di ogni interpretazione: il cittadino si sente immotivatamente responsabile per presunte e dissolute spese compiute nella pubblica amministrazione negli anni d’oro in cui l’economia sembrava andare a gonfie vele. Così, le rinunce e i sacrifici inflitti dalle attuali politiche economiche imposte dall’Unione Europea vengono subiti come la merita punizione” (Ilaria Bifarini: Inganni Economici).
John Maynard Keynes nel 1930 tenne una conferenza, a Madrid, “Conseguenze economiche per i nostri nipoti”:
“Voglio affermare che entrambi i contrapposti errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il pessimismo dei reazionari, i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti”.
Il piano Beveridge
“Se la piena occupazione non viene conquistata e mantenuta, le libertà non saranno sicure, perché per molti esse non avranno abbastanza valore” (William Henry Beveridge).
Nel 1942 l’economista Beveridge elaborò una nuova filosofia sociale: “nel mercato le persone sono remunerate in base al proprio merito e contributo, ma, di fronte a rischi e bisogni che non dipendono da scelte individuali, ciascuno deve essere egualmente protetto in quanto cittadino.”
Il piano ideato dall’economista Beveridge in un documento recante il suo nome, nel 1942, fu determinante per istituire lo stato sociale nel Regno Unito dopo la Seconda guerra mondiale. Esso prevedeva l’istituzione del Servizio Sanitario nazionale, fondato sul ruolo centrale del governo nel finanziamento e nella fornitura delle cure sanitarie della popolazione, sul principio fondante del diritto universale alla salute collegato al possesso della cittadinanza. Tale sistema fu adottato anche dall’Italia, dalla Spagna, dalla Norvegia, dalla Finlandia e dall’Islanda. Beveridge riteneva fosse compito dello Stato prendersi cura e proteggere i propri cittadini in ogni aspetto della loro vita, salute, istruzione, lavoro, dalla “culla alla bara” e lottare contro i “cinque grandi mali” (Giant Evils): miseria, malattia, ignoranza, impoverimento e ozio.
Il decalogo del prof. Caffè
“Dello Stato del benessere Caffè conosceva i possibili abusi e le evidenti inefficienze, e da queste metteva in guardia. Tuttavia, riteneva inaccettabile che le critiche si concentrassero sull’idea di Stato sociale in sé, sull’idea di solidarietà che sostanziava tutto l’apparato del welfare invece che sulle sue deformazioni. Il riformismo lucido e coraggioso di Caffè vive, dunque, della difesa strenua della necessità dell’intervento pubblico nelle vicende economiche e della condanna delle presunte virtù vivificatrici del mercato lasciato a sé stesso e ai suoi animal spirits. Negli anni del liberismo selvaggio e dell’edonismo reaganiano, dei primi fenomeni speculativi di borsa e delle collusioni tra politica e malaffare, Caffè fu il portatore sano di una «eresia» riformistica che non voleva essere la panacea di tutti i mali, ma il tentativo di offrire un punto di vista alternativo che incarnasse un bisogno forte di Stato, di rigore, di direzione. […] La ripresa dei temi di Caffè (le disuguaglianze sociali, la solidarietà, l’urgenza della giustizia, la dignità del lavoro, l’umiliazione della disoccupazione) possono ancora oggi aiutare a risolvere le reticenze e i tentennamenti di un riformismo che appare talvolta poco sicuro delle sue ragioni e della sua identità. (La solitudine del riformista. A proposito di Federico Caffè-Giuseppe Abbracciavento ed. 2004)
Il decalogo pubblicato dal prof. Caffè è ancora attuale. Esso fu scritto nel 1982, quando si cominciavano a muovere gli “incappucciati della finanza”, che gettavano in quegli anni le basi per il neoliberismo con la svendita degli asset italiani, la perdita della sovranità monetaria e la crisi produttiva e occupazionale costruita a tavolino ed implementata ad arte.
Egli indicava:
- attenzione per gli aspetti reali dell’economia rispetto a quelli finanziari;
- la sospensione delle dissipazioni delle riserve valutarie per sostenere la parità della moneta;
- il ripristino del “deposito previo” sulle importazioni (già introdotto nel 1976), per impedire le scorte speculative di prodotti importati;
- lo stimolo alle produzioni agricole sostitutive delle importazioni;
- l’impulso pubblico all’attività edilizia;
- un’indagine sulle istituzioni creditizie, come preliminare a qualsiasi progetto di riprivatizzazione delle stesse;
- l’utilizzazione delle forze giovanili nel quadro di un programma in cui lo Stato sia «occupatore di ultima istanza;
- non aumentare tariffe e prezzi politici;
- non toccare la scala mobile.
(La solitudine del riformista, cit., pp. 241-43)
I punti sopra sono un vero e proprio programma di politica economica, essi indicano la strada per uscire dalla crisi e riportare l’Italia ai vertici della produzione e del benessere mondiali.
La vera democrazia porta benessere, libertà, occupazione e dignità.
Credits: Foto di Klaus Dieter vom Wangenheim da Pixabay