Immancabilmente, con i primi caldi, scatta l’emergenza siccità. Che ci siano in atto dei cambiamenti climatici non vi è dubbio, ma non è un problema di oggi. Se ne parla da anni, ma a ogni avvio dell’estate ci ritroviamo a riscoprire il problema.
C’è chi si meraviglia e dipinge un mondo diretto verso la catastrofe ambientale e chi, invece, sostiene che la terra ha risorse infinite, che le condizioni climatiche avverse sono cicliche e non c’è da preoccuparsi.
Come spesso accade la verità sta nel mezzo: i cambiamenti climatici ci sono e sono indubbi, ma la mano dell’uomo è altrettanto presente e responsabile in quanto sta accadendo.
Quello che sorprende, anche se ormai non sorprende più nulla, è il fatto che ogni anno siamo al medesimo punto. Che senso ha che se ne discuta nel momento in cui la siccità si manifesta? Forse che non era prevedibile?
Durante tutto l’inverno è piovuto pochissimo e anche se il fenomeno non fosse ciclico era evidente per tutti, anche per i meno esperti, che avremmo avuto carenza d’acqua.
Eppure, come sempre, siamo in emergenza. Emergenza sanitaria, emergenza per la guerra, emergenza per l’energia, emergenza per la siccità. Fra poco emergenza per gli incendi boschivi.
Ormai l’emergenza è una costante, la programmazione un caso fortuito.
Preoccuparsi del riempimento degli invasi per poter attingere nel periodo estivo è sicuramente importante, ma è altrettanto importante capire, oltre ai cambiamenti climatici, perché ci ritroviamo ogni anno a discutere delle medesime problematiche.
Criticare la politica che non ha una visione è facile, ma è anche vero che solo la politica può e dovrebbe fare programmazione e interventi concreti.
Innanzitutto, prendiamo atto che la quantità di acqua nel pianeta è sempre la stessa, a meno che non crediamo se ne stia andando in qualche altro posto della galassia.
Di conseguenza dobbiamo pensare a una gestione diversa e più attenta della stessa. Prima di tutto ridurre gli sprechi: non è una notizia che lungo le condutture degli acquedotti l’acqua si disperda. La percentuale di perdite idriche totali supera il 40%, quindi ogni 100 litri immessi nelle condutture, 40 sono dispersi perché la nostra rete idrica è un colabrodo. Secondo un report di Milena Gabanelli si perdono 6,5 milioni di litri al minuto. In alcune regioni le perdite superano il 60%.
La Federazione che riunisce le Aziende che operano nei servizi pubblici dell’acqua afferma che occorrerebbero 3 miliardi di euro per le opere di manutenzione. Noi non abbiamo le risorse e nemmeno la fretta. Oggi il rinnovo della rete idrica procede a un ritmo di 3,8 km l’anno. Di questo passo si stima che ci vorranno 250 anni prima di aver ristrutturato le migliaia di km. di tubi.
Fin qui per l’acqua che dovrebbe arrivare nelle case, ma nei campi la situazione non è più florida. Qui però le concause sono diverse.
L’industrializzazione dell’agricoltura ha portato alla creazione di ampie distese monocolturali, per recuperare spazio sono state eliminate la maggior parte delle siepi e delle zone alberate. La coltivazione estensiva ha causato desertificazione e aridità. Basterebbe osservare dall’alto con un drone la Pianura padana e molte zone del Paese, per capire cosa sta accadendo. Ampie zone gialle sono il segnale di terreni esausti a causa dello sfruttamento sempre più intensivo: perché l’obiettivo è sempre più, la quantità di produzione.
Il ripristino dell’arboricoltura di proda dei campi ricondizionerebbe l’ambiente aumentando la ritenzione idrica del terreno, creando un minor fabbisogno idrico nei periodi più siccitosi. Ma il ripristino delle siepi e delle aree alborate permetterebbe anche di ricreare un habitat per gli insetti, considerati nocivi, riducendo il fabbisogno di interventi specifici.
Di contro, abbiamo sempre più aree agricole in stato di abbandono, soprattutto nelle zone collinari e di montagna, per l’abbandono dei piccoli paesi. E abbiamo spesso aree incolte perché è più conveniente il contributo della PAC (Politica Agricola Comune) piuttosto che il reddito dei campi.
Ma c’è anche un altro aspetto da approfondire. Se, nonostante le coltivazioni intensive, dobbiamo acquistare grano Ogm dai Paesi del nord America proprio noi che eravamo il granaio d’Europa, c’è forse qualcosa che non va nelle politiche economiche agricole.
In Italia le coltivazioni Ogm sono vietate, ma nulla vieta che compriamo all’estero prodotti geneticamente modificati. In particolare, un accordo commerciale (CETA) significativo è stato fatto nel 2017 tra il Canada e l’Europa. Un accordo particolarmente vantaggioso per il Canada. Riferisce la Coldiretti che nel 2020 c’è stato un aumento delle importazioni di grano e altri cereali dell’82%.
Una vera invasione, nonostante il prodotto canadese non rispetti le stesse regole di sicurezza alimentare e ambientale vigenti nel nostro Paese e sia trattato con l’erbicida glifosato in preraccolta, secondo modalità vietate sul territorio nazionale dove la maturazione avviene grazie al sole.
In parole più semplici, essendo il clima del Canada molto più umido del nostro, il grano potrebbe produrre le aflatossine, un fungo velenoso per l’uomo. Per risolvere tale problema, immediatamente prima della raccolta, viene utilizzato il glifosato che, provocando un disseccamento della pianta, evita la produzione del fungo. Tuttavia, essendo il glifosato un prodotto sistemico, entra nella pianta e noi poi lo mangiamo attraverso le farine utilizzate in ambito alimentare.
Tutto questo provoca anche un altro effetto: il crollo delle quotazioni del grano nazionale, che mette a rischio oltre 300 mila aziende agricole che lo coltivano spesso in aree interne senza alternative produttive, e perciò a rischio desertificazione.
Qualcosa di simile, anche se inverso, sta accadendo per i vigneti. Grazie ai contributi per l’impianto di nuovi vigneti e a un mercato florido verso l’export, le coltivazioni delle vigne aumentano creando aree sempre più ampie di monocoltura che, come abbiamo visto, portano con se altre problematiche.
Quale dunque la soluzione?
La soluzione è molto complessa, ma dovrebbe partire innanzitutto da una programmazione e da una visione diversa dell’agricoltura. Una visione che assegni innanzitutto il giusto ruolo a quella che oramai è diventata una cenerentola: anziché essere considerata, come dovrebbe essere, un settore primario, è stata messa in disparte favorendo spesso paesi anche extraeuropei. Si dovrebbe inoltre parlare di sostenibilità e di produzione di prodotti sani oltreché di un equilibrio diverso tra i vari paesi dell’Europa.
Non si tratta di proporre la decrescita felice ma piuttosto la crescita felice. Una crescita che rispettando le leggi della natura riduca i problemi legati all’agricoltura convenzionale. Un’agricoltura sostenibile significa anche un ambiente più sano e comporta la produzione di cibi con maggiori qualità nutrizionali e minor fabbisogno di acqua per l’irrigazione.
Se poi a tutto questo diamo un nuovo impulso attraverso un’agricoltura sociale che, interagendo con i territori, garantisca maggiore redditività, ecco che stiamo andando verso soluzioni ragionevoli.
Il futuro si prepara nel presente, il problema della siccità non è un problema che riguarda solo le colture. La mancanza di precipitazioni nelle città alza il livello di inquinamento che peggiora la qualità dell’aria. Benvenuta allora una nuova visione urbanistica per la città del futuro con adeguate aree verdi per contrastare l’inquinamento.
Le soluzioni ci sono, cominciamo da quelle più semplici, realizzabili a costi contenuti e cominciamo a realizzare la vera transizione ecologica. Qualcuno obietta che la transizione verde ha un costo, ma dovremmo chiederci quanto ci costa restare dove siamo, ovvero in una situazione che ha impatti (non solo economici) enormi. Disastro ambientale significa perdita di vite umane, di colture, della biodiversità, distruzione del territorio.
Tutti problemi con effetti immediati e contemporaneamente di lungo periodo.