LA CASA DEL SOCIAL JOURNALISM

Teatro da… Camera

Un convegno/spettacolo per parlare di Teatro nel Sociale

Lunedi 30 ottobre presso la nuova aula gruppi parlamentari della Camera dei Deputati, si terrà una manifestazione che vuole affrontare i temi dell’utilità dell’arte (e del teatro in particolare) nel Sociale. “Una professione che (non) esiste” il titolo dell’incontro aperto a tutti i cittadini (previa prenotazione).

Gli operatori e le operatrici di teatro nel sociale (O.T.S.) sono dei professionisti con competenze in ambito artistico, ma che prestano la loro opera anche in situazioni di vulnerabilità: periferie, carceri, minori a rischio, comunità terapeutiche, anziani, stranieri, centri di igiene mentale, ecc. Oltre alle competenze nell’ambito teatrale, hanno infatti sviluppato quelle relative al lavoro con e per persone in situazioni di fragilità o complessità. Un teatro che si fa, oltre a un teatro che si vede.

Questo lavoro parte da molto lontano, come racconta in un libro del 2022 Giulia Innocenti Malini (Breve storia del teatro sociale in Italia) e nel mio “Non Manuale dell’Operatore di Teatro nel Sociale” (Seri Editore, 2023): si può intravedere la nascita dell’uso del teatro nel sociale in Italia, in maniera consapevole e strutturata, già dagli anni Cinquanta.

Oggi spesso si pensa al teatro sociale come una forma artistica dedicata solo alle persone in difficoltà, ma in realtà l’importanza dell’uso del teatro ha una valenza molto più ampia: teatro “sociale” significa infatti che si occupa della società, come raccontano le narr-azioni di maestri del teatro contemporaneo (Barba, Grotowski, Living Theatre, Boal …). Celeberrima l’azione di Orazio Costa Giovangigli, negli anni Settanta, a Firenze: l’apertura di attività teatrali a persone comuni, consapevole di un necessario recupero dell’istinto mimesico dell’essere umano per agire in un mondo che già allora stava andando verso la spersonalizzazione dovuta a tecnologia e globalizzazione.

Negli stessi anni, anche la Scuola italiana comprendeva il grande valore del teatro come strumento di relazione ed espressività per i bambini, iniziando a immettere l’arte teatrale come materia scolastica. Ma, dopo queste lungimiranti intuizioni, negli anni a venire qualcosa è cambiato: dimenticato l’insegnamento a scuola (se non in sporadiche e disomogenee azioni), il teatro come strumento “sociale” è divenuto qualcosa da destinare appunto a soggetti con palesi difficoltà.

Complici forse anche i successi (mediatici) di gruppi di lavoro quali “La compagnia della fortezza” di A. Punzo, gli spettacoli di Pippo del Bono, il film “Cesare deve morire” dei Taviani (vincitore dell’Orso d’oro al Festival di Berlino) e altri bellissimi lavori e gruppi, si è concentrata l’attenzione solo sul (sacrosanto) recupero della persona. Ma così facendo, sono stati messi in secondo piano almeno due aspetti. Il primo, è quello dell’impatto non solo sulle persone che fanno parte di questi gruppi, ma anche sul resto della società (dati alla mano). Il secondo, è la necessità di avere delle persone (operatori) adeguatamente preparati, che siano in grado di utilizzare l’arte come medium e non come terapia (per quello, esistono già i terapeuti). Certamente l’arte può essere terapeutica, ma con una accezione ben differente da quella cui siamo soliti utilizzare questo termine (ovvero superficialmente o, nella migliore delle ipotesi, affiancandola a percorsi “curativi”, quindi per persone “malate”).

Una professione che (non) esiste da oltre cinquant’anni

Dopo le esperienze pionieristiche degli anni Settanta e le esperienze di gruppo e/o individuali in vari territori nazionali (citiamo ad esempio il lavoro di Giuliano Scabia, docente al DAMS di Bologna fino ai primi anni del nuovo secolo), si comprese che il “teatro sociale” non soltanto era efficace (e, spesso, a basso costo d’esercizio), ma poteva essere utilizzato in miriadi di attività: dalle carceri, appunto, agli ospedali; dalle case di cura alle periferie, dalle scuole ai centri di accoglienza…

Nello stesso tempo, a parte la lungimirante intuizione dell’Università di Torino (che già dal 2004 realizza un master in Teatro Sociale, però dedicato in primis solo a laureati e anche in ambiti non artistici), la realtà formativa italiana non ha saputo finora trovare una formula per evitare che i professionisti in questo ambito (attori, registi, conduttori di laboratori teatrali, artisti pedagogisti, etc.) siano legalmente riconosciuti.

Alcune associazioni private (Isole Comprese di Firenze, Oltre le Parole di Roma) più o meno negli stessi anni di UniTo hanno iniziato a realizzare dei corsi di formazione per Operatori di Teatro nel Sociale (e di Comunità), fino a che anche altri atenei (ma solo negli ultimi anni), come la Cattolica di Milano o La Sapienza di Roma, hanno (sicuramente) compreso l’interesse intorno alla professione e (forse) la necessità di formare dei professionisti nell’ambito. Ecco che sono nati vari master in “teatro sociale e di comunità” che risultano però un paradosso legislativo: come si fa infatti a fare un master su una professione che non è legalmente riconosciuta?

Perché “in Italia non si campa con l’arte” (cit.)

L’Operatore e Operatrice di Teatro Sociale (O.T.S.) non è né un (arte)terapeuta né un semplice attore/regista, né tantomeno un laureato in discipline dello spettacolo. In Italia la maggior parte delle Accademie e Scuole di Teatro infatti non rilasciano un titolo equiparabile a una laurea (di recente solo l’Accademia Nazionale Silvio d’Amico, il Centro Sperimentale di Cinematografia e pochissime altre), mentre il lavoro presso strutture in ambito sociale ed educativo (appunto scuole, ASL, carceri, comunità di recupero, etc.) “necessita” di un titolo universitario (laurea). La conseguenza di tutto questo è che appunto ci sono O.T.S. che lavorano da anni (anche oltre 30, in diversi casi) in strutture (e con encomiabili risultati) senza avere un inquadramento professionale definito (e quindi neanche delle salvaguardie lavorative che tutelino il loro lavoro e quello di continuità con l’utenza con cui hanno a che fare).

Eppure, sono migliaia gli O.T.S. che lavorano in tutta Italia in numerose strutture pubbliche e private. Il progetto europeo “Re. S.to.R.E” (REcognition of the Social Theatre Operator as a professional to tackle the Risk of social Exclusion) realizzato a cavallo della pandemia in 6 nazioni europee, ha provato a definire l’ambito di questa professione e le relative competenze. Nel contempo, ha portato all’attenzione le difficoltà di avere una tutela lavorativa, un inquadramento legislativo e quindi il riconoscimento del proprio lavoro.

Teatro è cultura, non solo sanità e istruzione

L’incontro del 30 ottobre 2023 (aperto a tutti, previa prenotazione come da locandina in calce), si aprirà con uno spettacolo interpretato dall’attrice Federica Palo: “La lupa nella gabbia“, che raccoglie e racconta esperienze di Teatro in carcere. L’on. Raffaele Bruno, che introdurrà il convegno, è il primo firmatario di una proposta di legge per portare un teatro in ogni carcere. E non è solo demagogia o buonismo: i dati raccolti in questi anni raccontano di tassi di recidiva straordinariamente bassi per le persone che hanno frequentato dei percorsi teatrali nelle carceri.

La stessa cosa potrebbero raccontare gli operatori che lavorano in altri contesti: il teatro diventa un mezzo di espressività e benessere. Senza scomodare gli abusati termini quali “ascolto ed empatia”. Ecco perché, i numerosi relatori presenti al convegno (volutamente degli outsider) , racconteranno le trasformazioni in positivo (di famiglie, quartieri, città … e non solo degli individui partecipanti al “teatro”) grazie all’opera di esperti di teatro, applicati al sociale.

Ecco perché devono dialogare Università e scuole di teatro, pedagogisti e registi, medici e drammaturghi: il percorso teatrale (e le non ovvie e obbligatorie performances) produce Cultura, innanzitutto. E Cultura è prevenzione, non solo conoscenza o compiacimento fini a se stessi. Bisogna che il teatro rimanga libero e indipendente da strutture-gabbia come quelle attuali del nostro mondo di formativi percorsi formali: non solo lauree e titoli, ma competenze, esperienze (e poi titoli, se necessario). Bisogna che l’O.T.S. possa lavorare alla pari con le altre figure professionali riconosciute (insegnanti, educatori, psicologi, terapeuti, assistenti sociali, etc.) mantenendo la propria forma più astratta (che è il motivo per cui funziona in situazioni strutturate e definite).

Arte dell’incontro

Bisognerebbe trovare il modo di raccontare che chi fa teatro in determinati contesti non lo fa per un senso di egocentrismo. Che fare teatro porta alla comunità anche un risparmio economico (in termini, ad esempio, di uso di farmaci per persone con disagi psico-fisici). Che fa fare movimento ai giovani (anche quelli che non possono o non vogliono fare sport) e che dà loro una possibilità di creare relazioni anche al di fuori del mondo virtuale. Che racconta il punto di vista degli altri anche in quartieri difficili, e quindi integrazione. Che dà la possibilità (anzi la necessità) di sbagliare in un mondo rivolto alla perfezione. Il teatro insegna anche che è necessario essere diversi e che l’omologazione è un nemico da sconfiggere. E tante, tante altre cose, che se tradotte anche in termini economici e sociali riuscirebbero a dimostrare l’utilità del teatro, oltre il luogo comune della semplice esibizione.

Riusciranno i nostri eroi a raccontare che gli operatori di teatro sociale non hanno bisogno di un “titolo” pur avendo necessità di essere riconosciuti, per poter mettere a frutto cinquant’anni di esperienze?

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Pascal La Delfa

Pascal La Delfa

Autore, regista e formatore, si occupa di attività artistiche e teatrali, anche in contesti di disagio e fragilità e in progetti europei. È stato autore anche per la Rai e formatore e regista per aziende internazionali. Collaboratore esterno per alcune università italiane, è direttore artistico dell’associazione Oltre le Parole onlus di Roma. Fondatore del “premio Giulietta Masina per l’Arte e il Sociale”. Di recente uscita un suo saggio sul Teatro nel Sociale.

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