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Orlando Curioso

Ha senso leggere un lungo “classico” nell’epoca del tweet?

La povera Susana Tamaro è stata di recente al centro di una polemica in cui una sua frase -raccolta frettolosamente in una caotica intervista- è diventata motivo del contendere (ovviamente soprattutto, se non esclusivamente, sui social). Sembrava ce l’avesse con l’obsolescente lettura dei classici, quando invece (riassumendo in poche e incomplete parole) parlava della necessità di far appassionare i giovani avvicinandoli alla lettura ma con metodo e amore, e non con imposizione e fretta. E magari scoprire che i classici raccontano di amori, amicizie, sfide, ribellione alle autorità, conquista dell’autonomia, sogni da realizzare, sconfitte da elaborare, vittorie da conquistare e celebrare… Insomma qualsiasi emozione che possa navigare nell’animo umano, e ancor più in quello di giovani di passaggio tra la pubertà e l’età maggiore.

Ethan Hunt o Giasone?

Raccontare i classici? Sfida difficile, ai limiti della “mission impossible” o della ricerca del Vello d’oro da parte degli argonauti, tanto per rimanere in tema “classici”. Gli insegnanti hanno un programma scolastico fittissimo da seguire: a volte si fa fatica ad arrivare agli autori del Novecento, figuriamoci ai contemporanei. E poi ci sono docenti innamorati del proprio lavoro e competenti (anche sul “come” trasmettere, oltre che sul “cosa”) e altri che non riescono a stare dietro ai ritmi forsennati di generazioni abituate ai tempi di un reel, prima di perdere la soglia dell’attenzione (che non vuol dire necessariamente perdita di interesse). Dunque, devo scomodare ancora Italo Calvino (quest’anno cade il centenario della nascita, per cui spero mi perdonerà il disturbo) per almeno due motivi: il primo, è che una serie di sue riflessioni sul tema “Perchè leggere i classici” è stata pubblicata (ahimè, postuma) nel 1991. E molte, se non tutte le considerazioni e riflessioni dello scrittore, sono tutt’ora attuali e condivisibili La seconda, è che nel 1970 Calvino scriveva una “rilettura” dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto, dove non solo raccontava (quasi) tutta l’opera epica, ma ne dava una spiegazione “moderna”, leggibile e piacevole, tutt’ora affascinante e comprensibile anche a chi è abituato a seguire le “serie” su una piattaforma web. Anzi, l’Orlando Furioso è un percorso dove la narrazione su più livelli (personaggi che agiscono in contemporanea, narrazione con flashback, storie che si interrompono per poi riprendere in un secondo momento) è di una modernità e inventiva invidiabile a qualsiasi sceneggiatore.

Elogio dello strabismo

In un articolo precedente, ho già parlato degli unicorni di Calvino… E un paio d’anni fa ebbi il piacere di scrivere un breve saggio su un altro modo di leggere l’Orlando Furioso, al di là dei noiosi ricordi delle scuole medie. Vi riporto di seguito uno stralcio perché possa essere di stimolo a una riflessione meno superficiale sull’importanza e il valore dei classici, e magari un motivo per andare a rileggere uno dei capolavori della letteratura di tutti i tempi… Il saggio completo è leggibile gratuitamente collegandosi a questo link e questa è la domanda (impertinente e sfrontata): e se il titolo del libro fosse “Orlando eccitato, arrapato o meglio ancora ingrifato“, sarebbe più pruriginosamente e simpaticamente attraente?

L’ira, cantami o dea!

Come dimostrare ai nostri ricordi di studenti annoiati da racconti scritti con una lingua italiana molto distante da quella attuale e che aveva bisogno di continue parafrasi e spiegazioni di termini sconosciuti, quanto poteva essere ironico, divertente, persino comico quello che ritenevamo un “mattone” di Poesia Epica? Tale riflessione parte dal titolo, anzi dall’aggettivo del protagonista: “Furioso”. Nel dizionario, “furia” viene definita come uno stato di furore, di eccitazione, per lo più di breve durata, che si manifesta con atti e parole violente; accesso di collera, impeto d’ira (Dizionario Treccani). E in questo caso tra gli esempi di furia possiamo annoverare dunque anche la celeberrima “ira di Achille”. Tuttavia, nella visione “ironica” con cui l’Ariosto scrive l’opera, l’aggettivo di “furioso” potrebbe anche avere un altro senso. Dunque basta con il “discorrere” ovvero correre al galoppo, come diceva Boccaccio: montate a cavallo e siate pronti a errare, più lentamente e senza una meta certa.


…Solo non si vedono i due liocorni


Siamo nel pieno del mondo della cavalleria, e stemmi e arazzi, scudi e fregi sono all’ordine del giorno, per cui l’uso del termine desueto o del tutto sconosciuto per noi uomini del terzo millennio non lo era certamente per gli uomini del Cinquecento. In questo periodo, il termine “furioso” viene utilizzato anche per i bovini ritti e rampanti, che si trovano in alcuni stemmi dell’epoca ariostesca. Appare anche una distinzione tra tipologie diverse di bovini con conseguenti raffigurazioni e significati e, tra gli animali “furiosi” sono rappresentati anche i fantomatici liocorni (unicorni o alicorni), definiti furiosi, in quanto rampanti. A suffragio di ciò, il primo stemma dei signori di Ferrara, gli Estensi, cui è dedicata l’opera dell’Ariosto, è proprio un unicorno furioso. Il liocorno potrebbe quindi essere un omaggio, alla ricerca delle radici mitologiche che la casa d’Este stava inseguendo e cui è dedicata nella suddetta ottava iniziale l’opera ariostesca. D’altra parte il liocorno simboleggia forza e generosa vittoria, purezza e castità, qualità possedute certamente da Orlando. Come vedremo più avanti, nell’opera dell’Ariosto il prode cavaliere è quasi sbeffeggiato per questa sua cavalleresca e anacronistica ostinazione nei confronti della bella Angelica: lui tende a preservare l’onore suo e della fanciulla mentre lei si diverte con altri cavalieri di ogni schieramento, razza e religione. In maniera simile, nel film “L’armata Brancaleone” del regista Mario Monicelli, il “prode” Brancaleone da Norcia promette solennemente di riportare a casa la giovinetta Matelda e non cede alle lusinghe dell’attraente fanciulla per il codice cavalleresco che gli impone di rispettare la promessa fatta. Certamente Age e Scarpelli, gli sceneggiatori del film insieme allo stesso regista, dovevano conoscere bene il lato umoristico del poema dell’Ariosto e del suo protagonista.

Va dove ti porta il cu..rioso!

Ora, se ci sia qualcosa di ironico in tutto questo non sapremmo dirlo con certezza. Certamente l’immaginare il paladino Orlando che anziché simile all’omerico Achille sia paragonato a un unicorno infervorato può quantomeno suscitare una riflessione sulle modalità di lettura dell’Opera. Viene da domandarsi se non sia un omaggio dovuto ai propri mecenati o un ironico trattare il tema cavalleresco già abusato e perpetrato da secoli e definitivamente poi seppellito esattamente un secolo dopo dal Don Chisciotte di Cervantes (“Io sono ormai in possesso del mio giudizio, libero e chiaro, senza le caliginose ombre che su di esso avevano gettato le mie continue, squallide letture dei detestabili libi cavallereschi. Riconosco ormai la loro assurdità e le loro bugie”- M. De Cervantes- Don Chisciotte della Mancia, Cap. LXXIV)

E se siete arrivati a leggere fin qui… Avrete scoperto (o riscoperto, come dice Calvino) un motivo in più per (ri)leggere almeno alcuni classici, con buona pace delle polemiche intorno alla Tamaro!

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Pascal La Delfa

Pascal La Delfa

Autore, regista e formatore, si occupa di attività artistiche e teatrali, anche in contesti di disagio e fragilità e in progetti europei. È stato autore anche per la Rai e formatore e regista per aziende internazionali. Collaboratore esterno per alcune università italiane, è direttore artistico dell’associazione Oltre le Parole onlus di Roma. Fondatore del “premio Giulietta Masina per l’Arte e il Sociale”. Di recente uscita un suo saggio sul Teatro nel Sociale.

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